La funzione intellettuale, ci pensavo oggi, di fatto non esiste più. Non esiste in quanto interessata da un processo di esclusione iniziato ormai svariati anni fa, tramite un meccanismo di oblìo stratificato oggi definitivo. Ergo, un nuovo intellettuale deve sorgere come araba fenice dai residuati del pregresso. Un intellettuale evidentemente avulso dalla (essa stessa) scomparsa editoria cartacea, per esempio; per non parlare di un servizio pubblico che ormai assume la forma di un vero e proprio disservizio pubblico. La piazza pubblica ormai non esiste. Non ha orecchie per ascoltare, e questo scenario di menefreghismo al quadrato è più che mai teatro di potenziali sfide creative interessantissime.
L’intellettuale del presente, così come quello del futuro, innanzitutto non si chiamerà più intellettuale. Lo vedrei, al contrario, come gestore di intelletti altrui. Gli strumenti della modernità caotica saranno imprescindibili, ma dovranno essere riformulati per un uso in grado di veicolare memorie e idee del passato. Credo che molto dell’atteggiamento euristico debba essere tratto da una coltre polymath rappresentata da autori eclettici: Austin Kleon, Brian Eno, John Zorn, roba così… Gente che necessariamente lavora (più o meno consapevolmente, visto il rizoma infinito di connessioni che ciascuno di questi autori porta con sé) con quella che Edward De Bono chiamava creatività seria.
Più che comprare libri dovremmo comprare lo spaziotempo necessario per leggerli.
Ci penso sempre di più. L’ho detto, e lo ripeto: la questione è a monte, e non riguarda solo la prassi della cara vecchia lettura. Pure la contemplazione filmica, o musicale (e la contemplazione in genere), segue la stessa logica. A mancare è il tempo e la sua necessaria qualità minimale. Espressione che può anche estendersi allo spaziotempo. Ossia, manca ormai un quadro circostante atto ad accogliere il gesto.
Il tempo nudo e crudo è minacciato da interruzioni in potenza e in atto. Si tratta, cioè, di un tempo di bassa qualità. Possiamo avere a disposizione l’oggetto del desiderio, quale esso sia. Ma ci sfugge il contesto che ne accoglie la fruizione.
La falsa libertà abbonda; quella vera, che sarebbe bastata e avanzata anche in quantità molto esigue, manca invece completamente. Ne segue una sorta di distrazione basale che confonde ogni percezione. Ossia, abituarsi a considerare reali le risate registrate significa non capire più le battute che fanno ridere sul serio.
Il mio alter ego ha annotato alcune considerazioni in materia di privacy e dintorni. In pratica le stesse che io stesso ho sintetizzato su Twitter/X. Il tutto si riassume a mio avviso in una preminenza del tema del potere, che spesso viene confuso con altre cose: diritti, anonimato, cybersecurity, facoltà di fare quel che si vuole, e via discorrendo lungo l’interminabile sequenza degli equivoci alimentati dalla grande rete e dalla grande confusione.
Siete deboli. Potete solo nascondervi, e allora vi nascondete, spacciando questa prassi come la conquista di un potere che in realtà non esiste. Ossia, esiste nella misura di un contenimento, visto che è chiaro che se state in Kuwait potete solo nascondervi e nulla più. Ma la logica è la stessa anche in zone più libere e democratiche, dove comunque i vari Grandi Fratelli (non necessariamente lo Stato, ma anche le lobby, il boss di turno, o più in generale il sistema del potere) possono aggredire indirettamente, pignorare, far valere il loro potere d’acquisto orientato ad godere di ottimi avvocati, o giudici corrotti, o altre connivenze sotterranee.
Quindi sì, giusto nascondersi, ma a volte serve orientarsi verso atteggiamenti effettivamente più lungimiranti. Serve cioè utilizzare strumenti che permettano di avere potere sul maggior numero di contesti necessari all’esistenza in un certo spaziotempo.
Bitcoin fa sicuramente parte di questo novero. Non risolve tutto, ma se ben usato risolve molto, e in gran parte vi permette di cercare meno di scappare dal vampiro di turno, avendo la possibilità di affrontarlo direttamente.
Come sintetizzo in questo mio post su Mastodon, io non credo molto nella prassi del cosiddetto digital detox. O meglio, ci credo, ma nella misura di una limitazione parziale della prepotenza indiretta del Web nei nostri confronti.
La Grande Rete esiste, così come esistono la globalizzazione, la deriva politica, l’intelligenza artificiale che crea immagini brutte e standardizzate, il pensiero unico che diventa sempre più unico, la mediocrità al potere, e via discorrendo. Possiamo farci qualcosa? No. Possiamo difenderci? Tendenzialmente sì.
Personalmente sono impegnato nel Web quasi costantemente, quindi è ovvio che la mia percezione possa essere traviata dal flusso costante di informazioni gestite da altri, per scopi che sono quasi sempre commerciali, autocelebrativi, propagandistici e di certo non conformi a quello che sono e che voglio.
Però c’è un modo molto semplice di gestire il Web in modo tale da renderlo simile a noi. Basta rimanere consapevoli del fatto che il Web non è la realtà.
Il Web mima una parte della realtà. Propone dettagli, deforma messaggi e contenuti, impone le sue dicotomie. Però il Web è anche informazione indipendente, decentralizzazione, fediverso… Basta scegliere, isolando ciò che ci piace di meno.
Ho chiamato questa prassi Digital Detox 2.0, ovvero un uso selettivo del Web, basato su ciò che ci interessa e sulle connessioni che intendiamo privilegiare rispetto al caos infotelematico che necessariamente resterà tale e quale.
Mi sembra una bella idea. In materia ho dato anche qualche consiglio.
A volerla dire con una perifrasi, si potrebbe intendere la nostra epoca come tripudio di un atteggiamento di iper-semplificazione dicotomica che, a fronte di un’oggettiva esplosione della complessità di ogni ordine, grado e latitudine, propone come soluzione non già, come si dovrebbe, una serie di strumenti per abbassare il grado della complessità stessa, bensì una polarizzazione radicale e assolutamente acritica che si perde il classico bambino coi panni sporchi. In sostanza, oggi come oggi il pensiero unico vuole o tutto nero o tutto bianco.
Ecco dunque le cazzate di ogni giorno… Se sei contro Trump sei a favore della Harris. Se non ti convince la woke-culture sei fascista. Se sei contro un’adesione incondizionata al Partito Democratico sei un sostenitore delle destre populiste. Se metti in discussione il contante sei uno sporco comunista che vuole tassare tutto perché invidioso. E via discorrendo, lungo l’infinita gamma di — appunto — cazzate che contraddistinguono la versione di chi o ha un quoziente intellettivo troppo basso per ragionare su una realtà sfumata e a colori, oppure è più banalmente in malafede, e monetizza il caos attraverso meccanismi di varia natura.
Ho fatto questa premessa per parlare in realtà (anche se solo apparentemente) di tutt’altro: nello specifico, pensate un po’ quanto il volo sembri pindarico, della letteratura fantasy.
La ragione è legata all’aver da poco concluso la seconda stagione di una recente serie televisiva, Gli Anelli del Potere, derivata dal classico romanzo “di culto” Il Signore degli Anelli, a sua volta portato al cinema con la celeberrima trilogia di vent’anni fa, concludendo per quel che mi riguarda una sola cosa: a parte l’originale libresco, che non ho mai letto (fatemi causa), ma che di certo sarà un capolavoro (e vi assicuro che non ho alcun motivo “letterario o intellettuale” per dubitarne), l’intero corpus di opere cinematografiche fino ad oggi derivate dall’universo tolkieniano mi appare come la quintessenza della noia più assoluta.
Già i film di Peter Jackson non sono mai riuscito a digerirli. Lenti, lentissimi, immobili, con paesaggi banali, colori banali (verde acqua e muschio, terra, legno, pietra e cielo azzurro… fine della storia) diluiti in paesaggi senza alcun elemento di originalità. E poi quelle razze, esse stesse di una banalità e (diciamocelo chiaramente) bruttezza assoluta… Per non parlare della storia: una serie di anelli che (1) hanno poteri magici che da soli basterebbero a distruggere una galassia e (2) agiscono sulla mente e sul corpo del possessore solamente se quest’ultimo li tiene appiccicati a sé; ma ha senso tutto questo?
Insomma, veniamo al dunque. Oggi come oggi, riferendosi anche alla sola parola fantasy, nessuno, dico nessuno oserebbe fare un nome diverso da quello di Tolkien, riferendo l’intero genere alle sole sue elucubrazioni sul tema delle mitologie norrene e delle — ribadisco, e nessuno si senta offeso — noiosissime vicende di personaggi ora fastidiosamente bruttarelli, ora fastidiosamente bellocci, ora di una banalità disarmante. Mi viene da dire, se proprio vogliamo parlare di tradizioni, che era molto più originale il Medioevo italico tratteggiato in Brancaleone alle Crociate! Al più il “nostro” fantasy potrebbe spingersi ad altri successi al botteghino, tipo Harry Potter e vari suoi cloni.
A latere: Trovo interessante e istruttivo il fatto che un dark fantasy come il ciclo della Torre Nera di Stephen King non sia ancora stato tradotto in una saga filmica, se non per un (giustamente) dimenticato filmino (del tutto avulso dall’originale storia kinghiana) che di fatto conferma la regola: qui vogliamo solo fantasy a base di orchi e nani…
Tuttavia il fantasy è stato un genere incredibilmente fertile, e battuto da una miriade di autori che nulla avevano a che fare con le scolorite e pallide atmosfere wagneriane aventi a che fare con cavalieri puri di cuore e altre derivate arturiane, che nel dettato di Tolkien — o almeno, del Tolkien volgarizzato in immagini in movimento — assumono una valenza così totalizzante da assumere la caratterizzazione di un monoideismo quasi sconcertante, oltre che, appunto, inefficace e noioso. Cioè: una certa vocazione alla semplificazione e al sistematico oblio ha oggi come oggi letteralmente cancellato, censurato, occultato, fatto fuori e dimenticato autori che nella mia infanzia e adolescenza riempivano letteralmente i cataloghi di case editrici del calibro di Fanucci e Nord, per non parlare della stessa Mondadori.
L’edizione tascabile del 1991
Un esempio che mi piace citare è questo interessante romanzetto (di cui trovate alcune dettagliate informazioni in questo link), che si intitola Il Viaggio di Hiero, e che mi capitò tra le mani quando appunto fu ripubblicato da Fanucci — che lo aveva già fatto uscire nel 1976 — in una conturbante collana di fiammanti tascabili, nell’ormai lontanissimo 1991 (ero poco più che quindicenne). L’autore è un certo Sterling E. Lanier, nome ovviamente quasi sconosciuto, esattamente come restano praticamente sconosciuti tantissimi altri autori, come ovvio quasi tutti statunitensi, che però ebbero modo di giungere fino a noi in Italia durante tutti gli anni Settanta e Ottanta, fino appunto a quasi un decennio dopo.
Alcuni di loro — cioè degli appartenenti a questa sorta di grande cenacolo yankee della letteratura di genere fiorita nel secondo dopoguerra — sono ricordati ancora oggi, come, che so, un Philip Josè Farmer o un Fritz Leiber, ma tantissimi altri sono annoverabili nel grande oceano delle meteore. Eppure l’interezza della loro opera ha costituito l’ossatura di un fantasy veramente originale, diverso, colorato, esuberante e intellettualmente vivace.
Tornando al romanzo di cui sopra, non starò logicamente a raccontarvi la trama, anche perché in tutta sincerità la ricordo solo per sommi capi. Basti dire però che il viaggio del titolo si inoltrava in uno scenario da “dopo catastrofe”, dove tra animali mutati e senzienti, telepatie, foreste pluviali e incontri stranianti, il protagonista giungeva a recuperare un oggetto risalente a quella che per lui era la preistoria: sto parlando di un computer!
Insomma, con questo esempio del tutto banale mi premeva farvi capire come questi ultimi trent’anni siano sostanzialmente passati a dimenticare tutto, e a semplificare fino all’inverosimile quel poco che rimaneva: il gusto, la letteratura, il cinema, la politica, il pensiero, le idee… Tutto… Anche l’immaginario ne risulta sconvolto, ovvero semplificato in dicotomie, oltre che disarmanti, anche false (basti pensare a termini ormai svuotati di ogni senso sia filosofico che storico, come Destra e Sinistra, ridotti a slogan da analfabeti funzionali).
La mia “tesi”, da qualche settimana a questa parte, non è tanto una tesi quanto una banale osservazione lucida e critica dei fatti che stanno accadendo. La premessa è costituita da due mie sintesi portate avanti in due articoli: il primo commenta, confutandole, alcune estensioni al mondo occidentale che il ben noto commentatore crypto Rikki deriva da sue altre considerazioni — queste sì, assolutamente esatte e direi pure illuminanti — su quello orientale circa l’adozione di Bitcoin; il secondo puntualizza altre idee espresse da Giacomo Zucco, che sembrano vere sulla carta, ma nella realtà lo sono in parte.
Mi permetto di tornare su queste due confutazioni non già, come peraltro ho ben rimarcato, per sminuire l’evidente esperienza e stimabilità di questi due illustri commentatori e addetti ai lavori, quanto per sottolineare una tendenza che a mio avviso è largamente sottovalutata, o almeno ben poco affiorante nel dibattito pubblico su Bitcoin: parlo, senza tanti mezzi termini, della totale finanziarizzazione del satoshi, inteso ormai come “oro digitale” da comprare e conservare come tesoretto personale in vista di una sua rivalutazione e conseguente cash-out futuro.
Il tema della decentralizzazione — cuore pulsante della teoria e del protocollo di Satoshi Nakamoto, inteso come base di una nuova economia delle transazioni — è praticamente scomparso dai radar, e al suo posto ha lasciato un generico riferimento alla non pignorabilità del tesoretto di cui sopra.
Siamo cioè alla disquisizione su aspetti puramente patrimoniali (grandezze stock), e non economici (grandezze flusso), come se il Sistema avesse manipolato e acutamente dirottato altrove tutta la vera discussione in tema di Bitcoin: nuovo standard, economia circolare, appunto decentralizzazione, libertà, moneta deflativa, etc…
Recente mia interpretazione nel fumetto “Perfect Day”, dove mi sbizzarrisco in storielle estemporanee.
Mi verrebbe da dire: dove siete finiti? Ossia, a che punto siamo con la rivoluzione? Ci accontentiamo di questa versione masticata e sputata fuori dai vari BlackRock di turno, oppure intendiamo procedere con proposte e implementazioni?
Io, nel mio microbico, la parte del vero bitcoiner la faccio. Ho dirottato la mia associazione verso idee e posture metodologiche assolutamente “cypher”, mi occupo di divulgazione e formazione per orangepillare il maggior numero di persone che posso, e via discorrendo. Ma qualcuno dovrebbe anche politicamente prendere la parola. In Europa avanzano legislazioni fatte da chi di Bitcoin non sa un bel nulla, si sta preparando una sperimentazione dell’euro digitale che verrà somministrata a una cittadinanza senza alcuna formazione e capacità di scorgere opportunità e minacce di questa nuova e per molti versi nebulosa tecnologia, e nel frattempo, come sapete, fioccano gli arresti e le coercizioni a danno di professionisti colpevoli solo di aver garantito privacy e sicurezza nei loro prodotti tecnologici e informatici.
Dobbiamo ancora restare a guardare o abbiamo intenzione di muoverci, di organizzarci, di definire alternative a questo stato di cose?
(Non scrivo molto di politica, ma se ne scrivo, ne scrivo su Listed. In ogni caso, questo che stai leggendo è un post che parla di politica.)
In materia politica, ovvero nel descrivere le dinamiche in corso in questa nostra Italia, possiamo analizzare giorno dopo giorno tutto quello che accade: dichiarazioni, posizioni, siparietti, inchieste, e chi più ne ha più ne metta. Tuttavia la lettura oggettiva — e soprattutto sensata in termini di effettiva utilità — di quanto accade non può prescindere da una radicale sintesi, ovvero la capacità di vedere non già l’inutile dettaglio, ma lo scenario globale che si è venuto a determinare.
L’orizzonte temporale è a mio avviso molto preciso, e fa chiaro riferimento a quanto accaduto dalla pandemia in poi.
L’apice del “voto populista” si registra alle elezioni del 2018, dove i partiti che affiorano prepotentemente sono la Lega di Salvini e il Movimento 5 Stelle, all’epoca ancora rappresentato da “nomenclature sotto l’egida del grillismo”.
Subito dopo parte l’era dei mandati di Giuseppe Conte, che nella sua prima parte non registra sostanzialmente alcun cambiamento in termini di successo. La stessa Lega salviniana, alle europee di un anno dopo rispetto all’insediamento, arriva a prendere addirittura il 36% dei consensi, di fatto attestandosi come primo partito populista in Italia.
Cosa accade dopo? Semplice: accade la pandemia, che di fatto ribalta completamente il quadro del voto. La Lega perde improvvisamente — lo si vedrà in modo chiaro alle nazionali di fine 2022 — oltre il 70% del suo consenso, e il Movimento 5 Stelle passa complessivamente dal 30% delle nazionali del 2018 a un 15% circa.
Ad avvantaggiarsi di tale dinamica è ovviamente, e in modo puramente congiunturale, l’unico partito populista che ancora non aveva avallato le (a mio avviso) giustissime, ma oggettivamente scomode politiche di contenimento pandemico: parliamo di Giorgia Meloni e del suo Fratelli d’Italia, che di fatto assorbe quasi tutto il voto che fu della Lega.
Dal mio punto di vista, l’analisi potrebbe tranquillamente fermarsi qui, visto che ad oggi non è intervenuta alcuna fattispecie confrontabile alla pandemia che possa dirsi tale da indebolire il consendo di FdI. Certo, ci sono decine e decine di incoerenze, promesse gettate alle ortiche, voltafaccia in sede europea, e via discorrendo. Ma si tratta di noccioline, diciamocelo chiaramente, rispetto a quelle che oggettivamente sono state le conseguenze (ribadisco, a mio avviso necessarie) della pandemia e delle contromisure ad essa relative in materia di economia diffusa.
La mia personale opinione è che questo governo non arriverà a fine mandato, ma tale probabile interruzione non sarà certo dovuta a dinamiche messe in atto dall’opposizione parlamentare. La crisi politica — qualora tale da tradursi in crisi di governo, cosa comunque, lo premetto, tutta da dimostrare — può evidenziarsi solo all’interno di un centrodestra oggi chiaramente dissestato e a conduzione unica.
Se è vero infatti che il potere può essere un ottimo collante per saldare amicizie non proprio schiette, è anche vero che lo stesso potere può essere motore di invidie interne che, opportunamente sollecitate, possono sfociare in congiure del tutto inedite.
Tempo fa, proprio a Vicenza, dove oggi abito ma all’epoca non abitavo, ho conosciuto una certa ragazza che si faceva chiamare Reginazabo, e che all’epoca gestiva un B&B a tema steampunk (tale Ada Lab, in onore alla prima donna informatica della storia, tale Ada Lovelace), dove animava — anche in collaborazione con altri progetti ora limitrofi, ora nazionali — numerosi eventi di stampo alternativo e underground: proiezioni cinematografiche, laboratori di autoproduzione (fanzine, arte, serigrafia, modellazione e stampa tridimensionale), incontri con consumazione di cibo vegano, conferenze e altre cose — mi si perdoni il termine certamente troppo riassuntivo — abbondantemente fricchettone.
Di Reginazabo, il cui nome reale mi è stato sempre sconosciuto, e di tutti i suoi progetti, non rimane praticamente alcuna traccia nel web, se non alcuni riferimenti puramente nominali in link che conducono a domini in vendita e pagine vuote. Ma Reginazabo compare ufficialmente come traduttrice di un libro che a suo tempo ha goduto di una certa circolazione e relativo interesse. Parlo di Guida Steampunk per l’Apocalisse (2008), di tale Margaret Killjoy, attivista statunitense che nonostante il nome femminile è (anche se non a tutti gli effetti, vista la collocazione in un campo sessuale oggettivamente fluido) un autore maschile, pure lui abbastanza chiaramente (o almeno molto probabilmente) celato dietro quello che potremmo definire un suggestivo nickname.
La casa (cabinet) autocostruita da Margaret Killjoy nei boschi degli Appalachi.
Ebbene, perché mi è venuta in mente questa mia frequentazione di almeno una buona dozzina d’anni fa? La ragione è semplice: il ritorno di una certa cultura apocalittica, connessa all’idea di un tracollo totale del sistema finanziario, economico, sociale, ecologico e antropico su scala più o meno planetaria.
Intendiamoci. Gli statunitensi nutrono da decenni queste velleità da catastrofe imminente che li costringa a sopravvivere in remote regioni del deserto, o dell’Alaska, armati solo di tende, picozze e gadget tipici del DIY (Do It Yourself) di carattere estremo. Ma nel caso del testo di Margaret Killjoy, che potete peraltro (ormai) scaricare gratuitamente dal sito del progetto editoriale che all’epoca lo stampò, il tono generale si allontana notevolmente dalla retorica del comune neo-yankee di New York o Los Angeles. Siamo al cospetto di una vera e propria opera narrativa sotto forma di creative nonfiction. Una modalità che, ripeto, a distanza di svariati anni, oggi mi connette ad altre idee e altri personaggi, molto meno radicali di Killjoy, ma non meno inquietanti (anche se sapienti, simpatici, e pure amici).
Per esempio, in questo video ascolto il “priore” Giacomo Zucco, simpaticamente intervistato da Marco Costanza, mentre si lascia scappare l’esistenza di una sua riserva aurea fisica alternativa a quello che abbiamo imparato ormai tutti a riconoscere come oro digitale, materia che — dico io — dovrebbe essere a dir poco una sua personale religione, nonché l’asset su tutti preferibile per investire nel lungo termine.
Ebbene, da dove deriva questo orientamento alla fisicità del mezzo che dovrà salvarti? Sulla base di quale costrutto mentale qualcuno immagina un mondo senza elettricità e connessione web? Ma soprattutto, sulla base di quale perversione mentale qualcuno può anche solo ipotizzare che l’assenza di questi meccanismi di base possano essere anche solo lontanamente compatibili con una qualsiasi idea di sopravvivenza del genere umano?
Io ho una risposta, e la risposta è subdola e psicologica. Ha a che fare con l’individualismo, ossia l’edonistica immaginazione di un assetto globale che ti possa far vivere da ricco sfondato, in una villa immersa nel verdeggiante panorama di un’isola (magari paradiso fiscale), senza bisogno di società, politica, media, e via discorrendo, o con l’idea che queste cose possano comunque esistere anche senza gente che ci lavora.
Ovviamente siamo al cospetto di un’utopia. Ma tale utopia è talmente suffragata da iconografie diffuse, modelli e illustrazioni da stereotipo AI-based che a un certo punto la parte cosciente inizia a crederci, ad allestire sistemi, impalcature, to do list, atte a costruire il mondo che vorremmo. Con un problema che però si pone, che è quello della parte subcosciente e subliminale, che si ribella, che si tormenta, e alla fine ti viene a dire che no, devi per forza avere un piano alternativo, e questo piano, ancora più folle dell’utopia che l’ha suscitato, dovrà essere a base di cose materiali, che si toccano e che possano funzionare anche senza pagare la bolletta.
Ebbene, io vi dico che questa cosa è impensabile. L’apocalisse a cui pensa Margaret Killjoy non arriverà mai, e non arriverà mai neppure il paradiso di Satoshi Nakamoto, e nemmeno la catastrofe che Zucco vorrebbe arginare a colpi di lingotti d’oro. Primo, perché non ci sarà alcun motivo di aggrapparsi all’oro fisico. Secondo, perché l’oro fisico non avrebbe alcuna possibilità di arginare lo scenario immaginato come sfondo della sua azione di salvagente.
Perché noi siamo già dentro l’apocalisse, e gli zombie sono qui, tra noi, attivi come non mai, agenti in qualità di catatonico oceano ingaggiato per eleggere Tizio e Sempronio alle urne. Oppure ragazzine impegnate in improbabili reel TikTok e Instagram per generare traffico fingendosi animatrici sessuali nomadi, o fuffaguru in grado di farti diventare milionario in pochi secondi, o supporter del governo pagati un tanto a twit, il tutto immerso nel magma rovente delle telefonate indesiderate, degli scammer nigeriani, dei principi Faza3 from Dubai che ti concedono il loro amore per un obolo in satoshi.
Non serve aspettare: l’apocalisse ha il volto sorridente di una startup finanziata per non ottenere dopo due anni neppure un euro di fatturato, avendone spesi 100K, ovvero di uno studente che non può permettersi l’affitto per studiare a Milano, ma sfoggia l’ultimo modello di iPhone.
In questo articolo ho preso ad esempio il “caso” del finale del film Il Ritorno dello Jedi (1983) per parlare di corruzione. Sulla cosa ho riflettuto parecchio, e, imbattendomi in quest’altro articolo del Blog di Beppe Grillo, debbo dire che c’è una forte vicinanza tra i due concetti: corruzione e distruzione della memoria. L’articolo in questione parla di un romanzo che appunto rende la metafora attraverso la storia di un’isola dove gli abitanti, dimenticando, di fatto fanno sparire non solo la memoria, ma anche le cose. Cito direttamente le conclusioni:
L’idea del libro si presta ad una esatta analogia con il nostro presente. Oggi, le cose scompaiono incessantemente senza che neppure ce ne rendiamo conto. E scompaiono i ricordi, scompare la memoria, per la quale ci distinguiamo dagli animali. La proliferazione di oggetti ci illude, simulando un’abbondanza che non esiste. Ed è la nostra immersione nell’era della comunicazione e dell’informazione a far svanire le cose. Le informazioni, considerate “non-cose”, si ergono davanti agli oggetti, facendoli gradualmente svanire. Viviamo in un mondo in cui il predominio dell’informazione viene scambiato per libertà.
Mi trovo evidentemente molto in linea con questa descrizione, e a riprova di questo non posso fare a meno di citare l’esperienza diretta.
Io sono nato nella perfetta metà degli anni Settanta. La televisione del servizio pubblico che ho conosciuto da bambino e da adolescente — per intenderci, fino agli anni di Tangentopoli — era qualcosa di radicalmente diverso rispetto a quella attuale. Questo non significa assolutamente che non ci fosse pubblicità. Anzi, la pubblicità era onnipresente pure allora. Eppure accadeva qualcosa che ormai da anni non riscontro più.
I contenuti sia narrativi e cinematografici che documentaristici proposti nella RAI dell’epoca coprivano tranquillamente non solo il presente, ma anche il passato prossimo e remoto della produzione mondiale. In altre parole, noi ragazzini potevamo guardare tanto un film della citata serie classica di Guerre Stellari quanto uno di Stanley Kubrick, passando per le comiche di Stanlio e Ollio e arrivando ai classici di Alfred Hitchcock. La RAI dell’epoca per molti anni trasmise per esempio molti film dal vero prodotti dalla Walt Disney lungo tutto il secondo dopoguerra, nonché versioni restaurate dei mystery americani anni Trenta, per non parlare logicamente delle pellicole di Totò e della commedia all’italiana degli anni Sessanta. Oltre a questo abbondavano ovviamente gli sceneggiati del passato e del presente, le produzioni di genere fantastico, il tutto cacciato a forza in un poliedrico calderone che come ovvio annoverava anche i varietà — che all’epoca venivano firmati da autentici geni, come Enzo Trapani — e le tribune politiche (quando la politica esisteva e veniva fatta dai politici, non dalle veline), i programmi di pubblica utilità e quelli espressamente dedicati ai giovani e giovanissimi.
In altre parole, quella era una televisione che faceva servizio pubblico attraverso una fedele conservazione e riproposizione della memoria.
Ciò che accade oggi è l’esatto contrario, e avviene sulla base di due dinamiche compresenti e speculari: da un lato la vera e propria censura della memoria, che si traduce in una sua effettiva assenza dai palinsesti; dall’altro lato la manipolazione della parte puramente “nominale” della memoria, per proporre intollerabili semplificazioni, deformazioni e usi impropri della stessa.
Riassumendo, la nostra storia o e taciuta, o e raccontata in modo sommario, per non dire falsificante. Non mi stupisce dunque il dilagante revisionismo, la presenza di cariche pubbliche che disertano le feste della Repubblica, per non parlare della decadenza ormai decennale del nostro paese e del suo sistema economico, culturale e istituzionale.