Blogging Tarot

A cosa serve un blog?

Me lo sono chiesto spesso, soprattutto in ragione delle tumultuose trasformazioni che hanno trasformato il Web da luogo libero per addetti ai lavori a caos del social networking.

Tendenzialmente, la “forma blog” è un mezzo testuale, ipertestuale e multimediale per restituire una comunicazione ad alto grado di aggiornamento continuo rivolta a comunità di lettori più o meno vaste. Essendo quindi un sostanziale diario pubblicato in tempo reale, il blog è per definizione una morfologia in progress, che ripropone elettronicamente l’analogo funzionamento di un giornale, di un magazine, di una pubblicazione seriale.

Il progressivo spostamento dell’attenzione globale dal blogging puro alle grandi piattaforme — come Twitter/X, Facebook e Instagram, TikTok e affini — ha evidentemente trasformato lo scenario, non già distruggendo, ma di fatto commercializzando i blog, che sono praticamente diventati delle testate giornalistiche specializzate, oppure degli e-commerce affiancati da news ad hoc.

Rimane però la domanda, specie se associamo il blogging alla scrittura personale, come avveniva appunto a inizi anni Duemila o addirittura prima (si pensi a pionieri come Justin Hall): a che serve oggi un blog tenuto direttamente da uno specifico autore?

One-to-many… Esattamente questo è il punto. Un singolo individuo comunica cose ad ad altri, sostanzialmente sconosciuti. A parte la dimensione editoriale cartacea — giova ricordarlo, ormai caratterizzata da un continuo declino — a che serve tutto questo? Evitiamo di citare generosità, gratuità, bontà e altre scemate. Se è vero che tutto questo esiste, e ci mancherebbe, è anche vero che tutto questo non può essere orizzontalmente rivolto alla generica utenza del Web. Quindi resta la questione di fondo: dobbiamo capire per quale ragione sia ancora sensato tenere un blog, visto che la risposta sembra tutt’altro che banale,

Formulare una domanda…

Il problem solving è legato indissolubilmente al problem setting. Più un problema è definito, più la sua soluzione discende naturalmente dai ragionamenti — lineari o creativi — che dal problema derivano, se solo sappiamo indirizzare efficacemente le nostre energie.

Mi capita quindi sempre più spesso di indirizzarmi a domande complesse, che necessitano di metodiche altrettanto particolari, in grado di mescolare efficacemente razionalità calcolatrice ed energia creativa, euristica, divergente e convergente. Domande che formulo attraverso veri e propri viaggi intellettuali che implicano percezioni alternative e altrettanto alternativi strumenti di frameworking, tra i quali anche i Tarocchi.

Che dire: ho formulato la mia domanda, ho pescato la mia carta, e ho dato infine la mia risposta…

Frammento di Non Comunicazione

La comunicazione one to many secondo me è in crisi, una crisi strutturale in bilico tra i fasti del “bloggare in stile 1999” e il caos del social networking che abbiamo credo tutti sott’occhio. In generale, la maggioranza usa il Web solo per fare casino, e la restante minoranza tende a cercare di usarlo in una modalità originaria e storicizzata, oggi priva di sensatezza. In senso metaforico e isomorfico, funziona così: da un lato gli e-book spazzatura, dilaganti, inutili, brutti sia fuori che dentro; dall’altro un’editoria classica che prova a vendere libri cartacei in un mondo dove nessuno legge più.

Curioso quanto tale dicotomia sia sovrapponibile all’aporia politica che ormai ci circonda, con vere destre che combattono false sinistre, interpretando un gioco delle parti ormai vacuo e a somma zero.

Opto dunque per forme di non-comunicazione, che nascondono in realtà frammenti di auto-comunicazione.

Italia Centrale e Cinema

Arrivati ieri ad Acquapendente. Viaggio piuttosto tranquillo e scorrevole: da Vicenza fino a Orvieto non abbiamo praticamente trovato alcun impedimento, se non qualche minimo rallentamento dovuto a lavori stradali. Partiti alle 7.45, poco prima dell’una eravamo già a pranzo.

A dire il vero la temperatura qui nel viterbese è leggermente più rigida, o così sembra. Ho il naso freddo, e mi è stato riferito che a Vicenza fa più caldo del solito. Ho nel frattempo ricevuto gli auguri da parte del team dei miei datori di lavoro, nonché del gruppo politico territoriale.

L’altroieri, in serata, ci siamo visti il film Diabolik, del fratelli Manetti. Un vero schifo, per quel che mi riguarda. Sono perfettamente d’accordo con gran parte della critica, che ha visto bene di stroncarlo.

Il bilancio del secondo adattamento del fumetto delle Giussani (dopo quello di Mario Bava nel 1968, kitsch ma molto divertito e godereccio) è disastroso. Il Diabolik dei fratelli Manetti non è un errore ma il frutto di una serie di scelte precise, di una visione chiara che tuttavia è incomprensibile. (Wired)

La citazione mi ha indotto a recuperare proprio la versione di fine Sessanta firmata da Mario Bava, che è stato oggettivamente un colossale innovatore e un regista assolutamente ispirato, specie nel cinema di genere all’italiana. Lo si trova in versione integrale su YouTube. Potrei mai smettere di ringraziare la Grande Rete?

Mi sono reso conto che continuo a sostenere la superiorità del (nostro) passato rispetto al (sempre nostro) presente (di Italia ormai colonizzata dal peggio). Ormai è una sorta di tormentone personale, per non dire un vero e proprio filone di interessi. Cerco il passato, che è sempre più difficile da recuperare. Cerco di individuare dei percorsi di sensata fruizione del passato nel presente, cosa tutt’altro che banale.

La cosa può essere estesa al comparto cultura, con qualche considerazione in più. Non solo non abbiamo più intellettuali, ma non abbiamo più le condizioni per una loro collocabilità e sensatezza. Che dire: la finisco qui, altrimenti ci sarebbe troppo da dire.

Narrazioni Infinite e Considerazioni su Arte e Tormentoni

Dopo essermi trangugiato le sette stagioni di Pretty Little Liars — titolo curioso, dato che queste tizie passano un sacco di guai non per le loro bugie, ma per l’abitudine di spifferare tutto a tutti — penso di poter dire qualcosa di definitivo sulle serie basate su quello che ormai possiamo denotare come mito dello stalker onnipotente.

Ne avevo già parlato altrove, ma all’epoca ero veramente all’inizio dell’avventura. (Lo sottolineo, sette stagioni. Sette! Per giunta da venti episodi e passa ciascuna, praticamente un’epopea.)

https://creativephilblog.wordpress.com/2025/03/10/considerazioni-sparse-su-pretty-little-liars/

Posto che la serie, a parte qualche ridondanza, mi è in buona sostanza piaciuta, vuoi per questa attitudine a non prendersi troppo sul serio (cosa opportuna, viste le assurdità chiaramente dilaganti), vuoi per un’oggettiva bravura dell’intero team, credo che comunque qualche considerazione vada snocciolata; parlo soprattutto della struttura generale della narrazione, che, dovendo sostenere come detto una lunghezza piuttosto singolare, ha dovuto fare proprie delle tecniche direttamente tratte dal cosmo autoreferenziale delle telenovelas.

Lo schema a un certo punto diventa il seguente. C’è un personaggio misterioso che sembra vedere e potere tutto. Questo personaggio si inserisce pienamente nel filone — relativamente recente — degli “smartphone al cinema” (all’epoca poco più che telefoni cellulari), in quanto avvezzo a inviare continui messaggi a un gruppo di protagoniste, per vendicarsi di non si sa bene cosa. Questo stesso personaggio, ogni tanto, viene svelato, ma la rivelazione è presunta, parziale, ambigua, immediatamente seguita da un rilancio narrativo che rimescola le carte e induce lo spettatore a cambiare prospettiva e a vedere la cosa come “parte di un disegno più complicato”, che evidentemente mette in discussione tutto. In altri termini, il singolo personaggio del mistero, che evidentemente non potrebbe reggere per sette stagioni, è una sorta di collettivo cangiante che risponde a più mandanti, connessi da fili invisibili sempre messi in discussione. E così via, fino alla trovata finale, oggettivamente originale. (Non faccio logicamente spoiler, ma si tratta di un dettaglio che permette di vedere tutta la storia attraverso una chiave di lettura duplice, che si concentra su alcune inquadrature e scene “non troppo o non del tutto comprensibili”, che risolvono il puzzle con oggettiva coerenza.)

Perché parlo di questa serie? Perché mi interessa così tanto uno psicodramma in fondo adolescenziale fatto di reginette della scuola e segreti del paesino della periferia statunitense? La ragione credo sia esprimibile in questa perifrasi.

Mi rendo invece conto di quanto sia difficile, per gli sceneggiatori, reggere lo schema di storie sempre nuove. Si preferisce dunque creare un mondo e inventarsi non già delle narrazioni autoconclusive, ma delle “situazioni” che permettono di agire con quello che si ha a disposizione. In altre parole, narrazioni che per effetto di continue complicazioni e stratificazioni diventano potenzialmente infinite.

Nel caso di Pretty Little Liars la cosa è stata condotta con maestria. Nel caso del ben più antico Twin Peaks, serie cult di cui ho parlato spesso, i meccanismi sono come sappiamo abbondantemente sfuggiti di mano. Ma la storia è sempre la stessa. Parliamo di narrazioni commerciali, che sfruttano situazioni e fantasie per tenere semplicemente il pubblico incollato allo schermo.

Mi interessa parlarne, evidenziando appunto la differenza tra serialità pura e serialità puramente temporale, perché nel passaggio dall’una all’altra si consuma il conflitto tra mercato e arte, artificio e sostanza, letteratura bassa e alta. Questa conflittualità può essere efficacemente espressa in forma di quesito: Tra l’ispirazione artistica che sfrutta il mercato per diventare fruibile da parte di un vasto pubblico e l’istanza puramente mercantilistica che si fregia di contenuti artistici o intellettuali, cosa prevale?

Lo dico perché c’è stato un tempo in cui i film potevano essere contemporaneamente espressione della cultura popolare e perle della satira di costume, mescolando l’alto e il basso in un tutto che poteva permettersi l’esistenza nel mercato. Negli anni Cinquanta e Sessanta abbiamo in fondo sperimentato questo anche in Italia, no? Prodotti che potevano cioè permettersi di essere storia prima che meccanismo fine a sé stesso.

Lo stalker coi superpoteri ha una natura artistica e intellettuale? Non credo proprio. Funziona, certo. Ma non è l’espediente tramite il quale l’intelletto si porge al pubblico. All’opposto, è l’espediente punto e basta. Piace per passare il tempo, intrattiene. Assume la forma di un tormentone che rilancia sé stesso, sorta di inno alla riconoscibilità.

Che Mestiere Faccio: la Guida Definitiva (per capirlo)

La cosa più difficile è dire che mestiere fai."Di cosa ti occupi, Filippo?""Di campi non euclidei.""Che?""Mi occupo di pensiero laterale, che è problem solving non euclideo. E mi occupo di #Bitcoin, che è finanza non euclidea."L'euclideo dialoga col non euclideo. Semplice.

Cypher Creative Boy (@filippoalbertin.bsky.social) 2025-04-04T05:02:28.008Z

In generale non amo scrivere articoli che parlano di altri articoli, ma in questo caso farò un’eccezione. E credo non sarà l’ultima, visto che anche l’articolo che cito qui ne cita altri. (Ma li approfondisce.)

ERIS Ovvero il Regno Presente

Mentre licenzio questo mio nuovo articolo non posso fare a meno di pensare alla situazione internazionale che stiamo vivendo, che sempre più somiglia (non scherzo assolutamente) a un romanzo postmoderno di Thomas Pynchon. Le teorie discordiane della seconda metà dei Sixties si sono non solo avverate, ma hanno superato la loro stessa caricatura.

Abbiamo i neofascisti Elon Musk e Donald Trump che bloccano i conti correnti dei soldati NATO ad Aviano e Vicenza, i massimalisti Bitcoin che se la prendono col neopresidente USA per aver “rubato” i BTC da Bitfinex, l’exchange di Tether, la stablecoin che inneggia alla moneta di Satoshi Nakamoto, ma è peggata dollaro USA. E potrei andare avanti ore a descrivere contraddizioni che in realtà sono vere e proprie dinamiche di un meccanismo intrinsecamente caotico, ovvero di una geometria rigorosamente non euclidea che sembra ormai governare addirittura la quotidianità.

Nel mentre, la pace probabilmente arriverà dai resort di un multimiliardario, e non dai movimenti pacifisti. Idem dicasi per il crollo dell’Occidente, sancito non già da una rivoluzione socialista, ma da una rivoluzione dello stesso neocapitalismo contro sé stesso.

Pare di stare – lo dico da non-marxista – nel pieno di una profezia, quella sì, assolutamente marxiana, ma in salsa (appunto) letteraria, da coincidenza degli opposti tipica della fisica quantistica. Nel mentre, l’informazione tenta di costruire una storia con pezzi che ormai non sono più comprensibili, se non all’interno di un puzzle fastidioso come quelli creati dall’intelligenza artificiale.

Come detto: la piena realizzazione del Regno di ERIS celebrato dalle controculture di sessant’anni fa.

Appunti per un Diritto alla Creatività

Per quanto il tema possa sembrare banale, per non dire addirittura contaminato da una retorica di fondo, credo che una sua trattazione sistematica e approfondita possa riservare molte più sorprese del previsto.

Ossia, è piuttosto evidente quanto pochi siano quelli che si svegliano la mattina anteponendo un auspicio del genere ai pensieri su inflazione, strade dissestate, costo della benzina e dei libri scolastici, bollette e via discorrendo. Ma credo nonostante tutto che un’idea di “diritto” al creare, nell’accezione che andremo a precisare di seguito, sia centrale e opportuna per una serie di ragioni molto eloquenti.

Definizioni di creatività

Se per creatività intendiamo banalmente il lavoro di artisti, musicisti, pittori, scenografi, scrittori e affini, allora il confinamento alla sfera professionale svilisce certamente la mia argomentazione, in quanto è evidente quanto tali campi possano costituire direttamente l’oggetto di un lavoro retribuito, disciplinato da contratti e affini. D’altra parte, se qualcuno scrive poesie o dipinge paesaggi per il proprio piacere personale, è altrettanto evidente quanto questo stesso piacere costituisca certamente un valore difendibile, ma non certo un diritto inalienabile e di fondamentale importanza.

Se invece parliamo della creatività come facoltà generale di pensare in modo alternativo, di risolvere problemi complessi, di ampliare l’orizzonte, di vedere meglio la realtà e di individuare vie inedite per lo sviluppo di idee, allora la questione diventa più vasta, e arriva a toccare ambiti sociali, filosofici, psicologici e civili che giustificano il mio assunto iniziale.

Esiste quindi una questione aperta sul diritto alla creatività, inteso evidentemente come diritto potenziale che in questo nostro mondo apparentemente così aperto e multicolore viene di fatto negato con efficacia censoria che ha dell’incredibile. Questione aperta, ma sotterranea e invisibile.

L’idea di spaziotempo

Per quel che mi riguarda, io penso che l’aspetto fondamentale per giudicare l’assenza del diritto alla creatività sia profondamente legato non già al comune tema del “tempo negato” all’individuo, per effetto di coercizioni dirette e indirette derivanti dal mercato del lavoro e dalle moderne schiavitù imposte da forme di iper-competizione ormai riprodotte ovunque, ma allo “spaziotempo negato”, cioè a un insieme di tempo, luogo e qualità degli stessi per esercitare prassi che in mancanza vengono a risultare alla stregua di diritti negati, sia pure indirettamente.

Lo spaziotempo necessario alla creatività altro non è che un tempo sufficientemente omogeneo e uniforme che si svolge in un luogo “idoneo”, ossia dotato delle caratteristiche minime per svolgere un lavoro creativo. Dico “minime” perché non è assolutamente detto che una scrivania d’oro zecchino sia migliore di una normale tavola di legno posta su due cavalletti, né che la scrittura su carta avoriata con stilografica di lusso possa garantire una qualità creativa più elevata di quella garantita da una risma di buona carta da fotocopie e una penna a sfera.

Per “qualità” e “idoneità” dello spaziotempo mi riferisco invece a una dinamica molto più sottile, che cercherò di descrivere con un esempio concreto.

Supponiamo che io sia un manager che si trova nella suite di un grande albergo a cinque stelle, con a disposizione praticamente tutto quello che serve per rilassarsi, leggere, scrivere, guardare una serie TV o un film. Supponiamo anche che io stia attendendo una telefonata molto importante, sulla base della quale potrò capire se avrò modo di continuare il mio lavoro di sempre, oppure se sarò licenziato in tronco. Supponiamo anche che questa telefonata debba arrivarmi durante la giornata. Passa un’ora, e non arriva. Passano due ore, tre ore, e ancora si fa attendere. Arriva il pomeriggio, e niente, il telefono non squilla. Così fino a sera, minuto dopo minuto.

A questo punto qualcuno potrebbe molto superficialmente dire: “Caspita, di cosa ti lamenti. Non hai fatto nulla tutto il giorno. Avresti potuto leggere, scrivere, guardarti un film, e invece hai passato tutto questo tempo a girarti i pollici.”

Ebbene, ha senso questa affermazione? Dal punto di vista strettamente (e stupidamente) “formale” ha purtroppo senso, in quanto sì, è vero, io per tutto il tempo non ho fatto “formalmente” nulla, pur avendo la possibilità “formale” di fare quello che dice il qualcuno di cui sopra.

Ma sul piano “sostanziale” io ho fatto eccome qualcosa: ho passato un intero giorno ad attendere ansiosamente una telefonata che non arrivava mai. Avrei potuto leggere, scrivere, guardare la TV? Sì, ma con che clima interiore? Possiamo pensare che questa attesa che “formalmente” individua un lungo tempo passato senza fare nulla sia anche “sostanzialmente” idonea alla creatività?

Questo esempio spiega chiaramente cosa io intenda per “qualità dello spaziotempo” come alveo naturale per lo svolgimento di un lavoro creativo.

Spiace dirlo, ma gli impegni, le responsabilità, i figli, i genitori anziani, i problemi di lavoro, le mille preoccupazioni della vita frenetica sono oggettivamente un fattore di abbassamento della qualità dello spaziotempo, ovvero della sua idoneità al lavoro creativo.

Come spero ovvio, e a scanso di equivoci, non sto dicendo che la vita possa essere priva di questi fattori, né che si possa ragionevolmente immaginare di avere a disposizione quindici o sedici ore giornaliere per esercitare non professionalmente la propria creatività. A questo mondo tutti noi siamo chiamati a lavorare, a sacrificarci, a opporre resistenza a una serie di innumerevoli ostacoli e asperità, ed è evidente che nessuno di noi può pretendere di farne a meno senza incorrere in scelte il cui radicalismo può veramente non valere la candela.

Tuttavia il nostro mondo sta andando un tantino oltre questa ragionevolezza. La frenesia, le incomprensioni, le aporie e le contraddizioni rese aspre dai conflitti e dalle fazioni che ogni giorno si fronteggiano nella Grande Rete così come nella famiglia, nelle comunità e nei luoghi di lavoro, e non da ultimo una crisi economica e sociale “di sistema” nella quale sembra veramente che tutti debbano essere contro tutti, sono tutti fattori che ci stanno sottraendo ogni forma di qualità e di idoneità da dedicare ad azioni che sono tutt’altro che puro ozio.

La creatività: il come e il perché

Semplificando all’ennesimo grado, io credo che le attività creative che permettono di generare valore entro “congrue e idonee porzioni di spaziotempo” siano sostanzialmente due:

  1. La fase creativo-percettiva, con fruizione opportunamente tranquilla e indisturbata di libri, film, opere musicali, ma anche corsi, seminari, tutorial e qualsiasi altro stimolo passivo che possa generare potenziali ispirazioni.
  2. La fase creativo-fattiva, ossia la generazione attiva di idee, scritti, opere, soluzioni, implementazioni aventi appunto a che fare con la traduzione della componente divergente del punto uno in output innovativo, utile, pregevole e in grado di migliorare la nostra vita e quella altrui.

Intendiamoci, per implementare queste due fasi serve ovviamente del tempo, ovvero dello spaziotempo di qualità che possa dirsi al riparo dalle continue richieste di mogli e mariti, figli e figlie, genitori, colleghi, seccatori e via discorrendo. Ma non stiamo parlando di chissà che soggiorni vacanzieri nell’isola che non c’è.

Un lavoro creativo di altissima qualità può svolgersi tranquillamente lungo tre o quattro ore a settimana. Basta solo che in queste ore non ci sia nulla che possa disturbarci a parte il gatto che vuole le sue crocchette.

Pensiero Visuale e Decadenza Editoriale

Il pensiero visuale ci permette di cogliere sfumature che hanno anche a che fare con la storia della cultura. Da questo punto di vista, un esempio che letteralmente mi ossessiona è quello legato a un testo romanzesco divenuto ormai un classico.

La prima edizione del libro Il Pendolo di Foucault è a mio avviso estremamente istruttiva, specie se letta visualmente in relazione alle altre copertine che sono state utilizzate, negli anni, per confezionare questa opera narrativa nelle sue successive edizioni.

Cosa vediamo in questa prima versione? Ciò che vediamo è un primo piano della Tout Eiffel, proposta in un’elaborazione grafica (o fotografica, la cosa non è chiara, ed è un bene sia così) molto diversa dalle raffigurazioni stile cartolina che di solito siamo abituati ad associare ai monumenti nazionali di così plateale valenza iconica. L’immagine è in negativo, fondo scuro blu notte, netto, vibrante, in piena contrapposizione con l’azzurro delle volte metalliche, contemplate da un punto di vista ravvicinato, per non dire adiacente. L’immagine è sintetica e misteriosa. Non racconta nulla. Si limita a fotografare una sensazione.

Ebbene, questa sensazione indotta è per quel che mi riguarda la più fedele al romanzo di tutte quelle che sono venute dopo, a riprova del fatto che — ecco la valenza culturale del pensiero visuale — l’editoria dei tempi seguenti è andata via via decadendo verso pose e atteggiamenti sempre più banali.

Ma andiamo con ordine. Perché questa immagine è così attinente alla narrazione? Senza fare particolari spoiler (cosa peraltro impossibile per un romanzo fiume come questo), basti dire che la raffigurazione ravvicinata della Tour Eiffel si riferisce esplicitamente a una scena. Riassumendo, un personaggio chiave, peraltro anche voce narrante in prima persona dell’intero romanzo, si trova a Parigi, nel pieno di un fuga da qualcuno che ha commesso qualcosa. L’atmosfera è febbrile, concitata, in quanto la mente del fuggitivo è letteralmente ricolma di simboli, teorie, congetture, che fanno capo a Parigi come centro nevralgico di una congiura secolare. Il mondo frenetico appare come rappresentazione di qualcosa che i più non riescono, ovvero non possono vedere e comprendere. Ecco quindi che l’apparizione improvvisa della torre metallica, sotto la quale avviene parte della fuga, suscita nel protagonista un cortocircuito mentale attraverso il quale comincia a intravedere un senso nel caos: il monumento è in realtà una gigantesca antenna, un mostro di viti e bulloni, in grado di cogliere le energie telluriche e di rispedirle altrove per colpire e distruggere, controllare la materia e il pensiero a distanza, imporre il predominio sul mondo per effetto di una vendetta radicata nella storia.

Siamo al cospetto, quindi, di una perfetta sintesi grafica, che in un secondo, a livello subliminale, illustra il romanzo nel suo cuore tematico.

Cosa accade nella versione economica del medesimo testo? L’immagine, intendiamoci, è ancora molto attinente alla narrazione, ma riporta un insieme di simbologie e mappe circolari — rosoni, mandala, tavole sefirotiche — che illustrano e restituiscono all’osservatore un unico termine e fenomenologia: l’esoterismo di ogni ordine, grado, latitudine ed epoca storica.

Immagine evocativa, intendiamoci, e certamente opportuna. Ma che sarebbe stata ugualmente adatta anche per accompagnare un testo effettivamente esoterico, di natura e funzione puramente saggistica o storica: una storia della magia, o un vero e proprio manuale del novello apprendista stregone moderno.

Siamo circa a un lustro dalla prima edizione, e già l’editoria italiana punta ad una grafica più diretta e autoreferenziale, con un tono esplicito che si mantiene sempre sull’estrema raffinatezza — quelle ruote occulte che affiorano dal buio, porgendo simbologie e viraggi di colore dal freddo al caldo, sono oggettivamente sublimi — ma certamente si lascia alle spalle l’intellettualismo sottile del passato. I tempi, insomma, stanno cambiando. lentamente ma inesorabilmente.

Arriviamo quindi all’ultima iconografia illustrativa, sfruttata sia dalle ultime edizioni note, sia da quella per così dire definitiva, approdata anche alla casa editrice voluta, tra gli altri, dallo stesso Umberto Eco, La Nave di Teseo.

Qui la banalità espositiva regna sovrana. Vediamo una semplice foto aerea di Parigi, con un gargoyle oscuro che osserva un punto imprecisato dell’orizzonte. Qualche “simpatico” schema esoterico buttato qua e là ammiccava al contenuto nelle passate edizioni Bompiani, ma nell’ultima anche queste aggiunte scompaiono; rimane una piatta foto in bianco e nero, anonima e contemporanea, molto più simile al post di un mediocre fotografo amatoriale che alla copertina di un capolavoro letterario della modernità.

Siamo in definitiva passati dalla sottigliezza dell’intelletto alle risate registrate, o se preferite agli applausi comandati da un deficiente che si sbraccia in uno studio televisivo.

La mia dissertazione finisce qui, visto che mi pare non ci sia molto da dire, se non rimarcare quanto la nostra acutezza visiva e intellettuale si sia negli anni dispersa nel nulla, provincializzata, ribassata in un mercato che ormai non ha più nulla da dire, e cerca di piazzare anche la grandezza del classico in modalità volgari o comunque non all’altezza dell’originale.

Riflessioni sull’Oblìo Stratificato

La funzione intellettuale, ci pensavo oggi, di fatto non esiste più. Non esiste in quanto interessata da un processo di esclusione iniziato ormai svariati anni fa, tramite un meccanismo di oblìo stratificato oggi definitivo. Ergo, un nuovo intellettuale deve sorgere come araba fenice dai residuati del pregresso. Un intellettuale evidentemente avulso dalla (essa stessa) scomparsa editoria cartacea, per esempio; per non parlare di un servizio pubblico che ormai assume la forma di un vero e proprio disservizio pubblico. La piazza pubblica ormai non esiste. Non ha orecchie per ascoltare, e questo scenario di menefreghismo al quadrato è più che mai teatro di potenziali sfide creative interessantissime.

L’intellettuale del presente, così come quello del futuro, innanzitutto non si chiamerà più intellettuale. Lo vedrei, al contrario, come gestore di intelletti altrui. Gli strumenti della modernità caotica saranno imprescindibili, ma dovranno essere riformulati per un uso in grado di veicolare memorie e idee del passato. Credo che molto dell’atteggiamento euristico debba essere tratto da una coltre polymath rappresentata da autori eclettici: Austin Kleon, Brian Eno, John Zorn, roba così… Gente che necessariamente lavora (più o meno consapevolmente, visto il rizoma infinito di connessioni che ciascuno di questi autori porta con sé) con quella che Edward De Bono chiamava creatività seria.

Ci penserò…

Lettura Contesto Spaziotempo Percezione

Più che comprare libri dovremmo comprare lo spaziotempo necessario per leggerli.

Ci penso sempre di più. L’ho detto, e lo ripeto: la questione è a monte, e non riguarda solo la prassi della cara vecchia lettura. Pure la contemplazione filmica, o musicale (e la contemplazione in genere), segue la stessa logica. A mancare è il tempo e la sua necessaria qualità minimale. Espressione che può anche estendersi allo spaziotempo. Ossia, manca ormai un quadro circostante atto ad accogliere il gesto.

Il tempo nudo e crudo è minacciato da interruzioni in potenza e in atto. Si tratta, cioè, di un tempo di bassa qualità. Possiamo avere a disposizione l’oggetto del desiderio, quale esso sia. Ma ci sfugge il contesto che ne accoglie la fruizione.

La falsa libertà abbonda; quella vera, che sarebbe bastata e avanzata anche in quantità molto esigue, manca invece completamente. Ne segue una sorta di distrazione basale che confonde ogni percezione. Ossia, abituarsi a considerare reali le risate registrate significa non capire più le battute che fanno ridere sul serio.