Ritorno a Twin Peaks

Ebbene sì, sto rivedendo vedendo per la prima volta le primissime stagioni di Twin Peaks. Non ci crederete, ma all’epoca (1990-91) proprio non le vidi, per ragioni del tutto congiunturali legate alla ricezione dei canali che in Italia le trasmettevano.

Iconica immagine dell’iconico telefilm.

Il prodotto è (ovviamente) tra i più interessanti; segna uno spartiacque importantissimo nella storia delle serie televisive, nel senso che quasi tutto ciò che è stato prodotto in seguito risente pesantemente — ho avuto modo di constatarlo anche direttamente — della lezione narrativa di questo gioiello della letteratura mediatica popolare.

Lo schema narrativo di base sembra semplice. Un investigatore esterno viene chiamato a indagare su fatti accaduti in una cittadina isolata, che progressivamente, in seguito all’indagine, rivela tratti sempre più misteriosi. Quante volte abbiamo sentito roba del genere? Tante, no? Tantissime. Tuttavia questo schema viene utilizzato per scopi che vanno oltre la mera narrazione di una vicenda oscura e misteriosa.

Ho cercato di elencare alcuni di questi scopi, ovvero alcuni tra gli elementi che spiccano per originalità e stranezza in questa serie, giustamente salutata come cult:

  • Alcuni personaggi della cittadina di Twin Peaks sono oggettivamente grotteschi, fino al limite del soprannaturale. Tuttavia anche l’investigatore, sia pure in una dimensione molto più limpida e quasi infantile nella sua schiettezza, porge caratteristiche piuttosto strane: risolve enigmi utilizzando i sogni, si dichiara spesso depositario di poteri occulti, è ossessionato dalla regione del Tibet, e via discorrendo… In qualche misura, sembra che sia stato condotto in quei luoghi da una sorta di richiamo ancestrale.
  • Gli elementi lineari della trama (risoluzione del caso) vengono abilmente mescolati con aspetti molto più circolari e autoreferenziali, che vedono nei singoli personaggi vere e proprie funzioni psicologiche, tipiche delle narrazioni popolari televisive di consumo. Più precisamente, la narrazione appare in moltissimi punti come gigantesca soap opera, spesso anche parodistica e con elementi al limite della comicità, che utilizza l’indagine di base come pretesto e motore dell’azione di personaggi sempre più assurdi e surreali.
  • Determinate sequenze introducono elementi e aspetti del tutto indecifrabili, ovvero simbolici, oppure colpi di scena estremamente criptici, che giungono a citare anche atteggiamenti della cinematografia d’avanguardia.
  • La musica (Badalamenti) svolge un ruolo di primaria importanza. Concepita come novero di pochissimi e specifici temi conduttori — tra cui quello, celeberrimo e iconico, dei titoli di testa — punteggia la pellicola con caratterizzazioni molto precise: si riconoscono un tema passionale e struggente, un tema minimalistico e oscuro di due sole note per i momenti particolarmente misteriosi, e uno swing lento stile anni Cinquanta che sembra commentare le gesta particolarmente perverse di alcuni personaggi.
  • Ricorrono con particolare frequenza alcuni elementi piuttosto freudiani. In primis, il cibo, soprattutto caffè lungo, dolci (specie ciambelle), oppure formaggi e affettati a denotare in certi casi la perversione di alcuni uomini d’affari dalla doppia vita. Quanto alla pulsione sessuale, essa indugia spesso su dinamiche precise: i rapporti extraconiugali, la promiscuità, le relazioni tra individui con forte differenza i età, nonché alcuni riferimenti all’incesto. Altri simboli degni di nota fanno riferimento all’abbondanza di animali impagliati, ai rapporti con delegazioni di affaristi scandinavi, islandesi o comunque nordici, e alla dicotomia tra fuoco e follia (da notare che negli anni delle due prime stagioni fu anche girato un film, sorta di prequel alla serie, dall’eloquente sottotitolo Fire Walk With Me).

Dovendo dare un giudizio complessivo dell’operazione culturale compiuta con quest’opera, chiaramente sintetizzando procedure e metodologie narrative che per essere analizzate accuratamente richiederebbero ore e fiumi d’inchiostro, posso dire che siamo al cospetto di un prodotto che funziona come uno scandaglio di misteri. Il vero “mostro”, in questa serie, non si identifica tanto in questo o quel personaggio, ma nella cittadina di Twin Peaks in quanto tale, concepita come organismo formato da tanti organismi interconnessi. La grande intuizione è stata quella di fondere questa idea di base con uno stile narrativo attinto a piene mani dal linguaggio seriale delle telenovelas anni Ottanta, con elementi sperimentali e carichi di mistero.

Per approfondire, leggi anche questo mio articolo. Contiene considerazioni su aspetti esoterici e stilistici, sempre riferiti a Twin Peaks.

Delle Investigazioni Occulte

Mi sono deciso ad acquistare, sia pure in formato Kindle, la prima trilogia di Dresden Files, che ho conosciuto attraverso la mediazione della serie televisiva omonima e che da tempo desideravo leggere anche nel loro originario formato letterario. Debbo dire che lo stile di Jim Butcher mi piace. Fonde urban fantasy e hard-boiled all’americana in modo fantastico, arguto, ironico, deliziosamente scorrevole.

https://social.vivaldi.net/@creativephil/111691343163272201

Il mio prossimo libro in cantiere per la lettura sarà certamente legato alle stesse atmosfere, ma in una dimensione più classica: parlo del John Silence di Algernon Blackwood. Ho infatti voglia di approfondire la tematica e le atmosfere associabili al topos letterario dell’investigatore dell’occulto, un argomento che evidentemente ha illustri predecessori, e si è dimostrato tra i più battuti nella produzione di genere da ormai due secoli a questa parte.

Ma questa, come hanno detto altrove, è un’altra storia…

Sguardi Generazionali e Hacking

Su Amazon Prime ci siamo visti Wargames (1983). Film interessante, che ha la bellezza di quarant’anni esatti e parla di argomenti ancora attuali. A proposito di attacchi hacker, credo sappiate che mi occupo professionalmente anche di questo. Dai uno sguardo alla nostra CALL TO ACTION! A me piace molto. Sintetica, semplice, diretta, un po’ old style come piace a noi della Generation X.

A proposito di cose generazionali, il mio amico Marco Crotta, noto guru della cryptosfera, ha espresso un’opinione molto interessante su questa pellicola.

Salmone Bulloni e Soda Caustica: ovvero il Caso “Creators – the Past” e cosa può insegnarci

Di solito preferisco parlare di ciò che mi piace, e molto difficilmente di ciò che non mi piace. A meno che non si tratti di un articolo che decido di scrivere funzionalmente contro qualcosa, per ragioni che ritengo evidentemente sostenibili e opportune, mi sembra infatti piuttosto inutile dedicare parole a ciò che non merita attenzione, sottraendole indirettamente a quello che invece vale la spesa del mio tempo.

In questo caso, però, farò una doverosa eccezione.

Non amo gli eccessivi preamboli, ma qui sono necessari. Strettamente necessari.

Per quel che mi riguarda, il cinema nella sua più ampia accezione si divide in due grandi categorie: (1) grandi classici e (2) film recenti (che magari, chissà, un domani potranno rientrare a vario titolo nei grandi classici, ma ora come ora sono semplicemente quello che passa il convento). Spiegherò di seguito cosa intendo.

Grandi classici

Quelli che chiamo “grandi classici” sono i film della memoria personale e collettiva, che io non limito solo ai capolavori di Alfred Hitchcock, Stanley Kubrick, Steven Spielberg e chi per loro, visto che la lista sarebbe comunque lunga, ma anche a tante, tantissime altre produzioni che bene o male sono entrate nel nostro, o almeno nel mio immaginario estetico di riferimento.

Parlo dei dei mystery anni Trenta, dei muti di Buster Keaton e dei loro immediati successori “sonori” con Stanlio e Ollio, ma anche dei film con Bud Spencer e Terence Hill, così come dei thriller dal sapore argentiano, dei so bad is so good dell’exploitation Sexties e Seventies, aggiungendo anche i kolossal “peplum”, le commedie con Banfi e Vitali, Celentano, Pozzetto, Villaggio, tornando poi indietro al grande cinema italiano interpretato da mostri sacri come Manfredi e Gassman, passando per una gamma infinita di gradazioni dai fumettoni di Fellini a Blade Runner, da Tim Burton a John Carpenter, e così via, in una lista ancora più lunga e soprattutto eterogenea.

Questi numerosissimi film, attenzione, non sono assolutamente tutti belli.

Ci possono essere film bellissimi che ti intrattengono con una storia intrigante e film brutti che ti fanno riflettere, film trash che ti strappano una risata o porgono una qualche logica anche fascinosa (voluta o non voluta, basti pensare a case di produzione come la cara vecchia Troma o la più attuale Asylum), film sciocchi e infantili che però riescono a restituirti un sapore d’altri tempi e una relativa nostalgia; oppure film cult, film che hanno segnato un’epoca, film che testimoniano ambienti e stili, profumi e atteggiamenti, culture, idee. Insomma, c’è di tutto, e deve esserci di tutto. Potremmo dire, in sintesi: capolavori euclidei e non euclidei.

Film recenti

Dall’altro lato, ovviamente a meno di ripescaggi singolari nel novero di cui sopra, che a volte ti capita di incrociare senza particolari ricerche deliberate anche nel cosiddetto mainstream, ci sono invece i film più vicini a noi, ossia quelli che ormai comunemente vengono proposti al pubblico attraverso celebri piattaforme streaming come Netflix e Amazon Prime.

Che si tratti di un prodotto appena uscito o di dieci anni fa, poco importa. Si parla in questo caso di tipologie di film (o di serie televisive) che vediamo ormai praticamente ogni giorno, e che a livello di gradimento posso per quel che mi riguarda ormai inserire in una casistica percentuale definita, che a spanne suona così:

  • 10% – assoluti capolavori, o comunque film che mi sono piaciuti parecchio;
  • 40% – film divertenti, ben fatti, con buone idee estetiche e una realizzazione tale da far passare allo spettatore un’ora e mezza di ottimo intrattenimento;
  • 30% – film girati in modo decente, che si lasciano guardare però in modo distratto, avendo dei difetti che non permettono loro di superare la soglia del puro riempitivo del tempo libero;
  • 20% – film oggettivamente brutti, girati male, con una brutta regia e in generale idee brutte o realizzate in modo inefficace.

Cos’è un film?

Ora, indipendentemente dall’insieme di riferimento, qualsiasi film può essere giudicato, più o meno oggettivamente o soggettivamente, nei modi più disparati. Ma resta un fatto: stiamo parlando sempre di film.

Per definire un film credo sia utile chiarire cosa non è un film.

Supponiamo di prendere un piatto da tavola. Supponiamo di metterci dentro salmone affumicato, crema pasticcera, bulloni, soda caustica, marmellata di fragole, detersivo da bucato, caponata pugliese, crema di cioccolata, cemento e silicone. Possiamo definire questo piatto una ricetta? Evidentemente no. Eppure sta in un piatto da portata, esattamente come le ricette degli chef stellati.

Abbiamo capito dunque che non tutto quello che metti in un piatto è una ricetta.

Faccio inoltre notare che nel mio esempio ho usato sia elementi che, se messi insieme, pur essendo commestibili restituiscono comunque chiaramente un connubio improponibile, che non può essere una ricetta degna di questo nome, sia oggetti e sostanze non commestibili, che a maggior ragione avvalorano quanto un’accozzaglia di cose prese a caso non possa dirsi ricetta culinaria solo perché sta in un piatto.

Questo banalissimo ragionamento, mutatis mutandis, ci fa capire una cosa: che un film, brutto o bello che sia, per definirsi “film” deve avere delle caratteristiche, esattamente come una ricetta, buona o cattiva che sia, per essere “ricetta” deve averne altre.

Il “caso” Creators – The Past

Recentemente, nel circuito Prime Video, ho avuto modo di visionare una produzione del 2019 intitolata Creators – The Past.

Ho cercato di guardarlo tutto, ma inizialmente non ci sono riuscito. Poi però, stordito dall’esperienza, ma deciso a continuarla fino in fondo, ho preso fiato e sono arrivato fino alla fine.

Non starò qui a elencare la sequenza di recensioni che ho trovato, banalmente, su YouTube, tutte sostanzialmente concordi nell’affermare quanto tale produzione sia con tutta probabilità una delle cose più orrende mai realizzate da mano umana.

Ma qui c’è un punto che ci tengo a precisare da subito, soprattutto alla luce della lunga e probabilmente noiosa premessa che sono stato costretto a farvi trangugiare prima di dare un giudizio.

Questo NON è un film. Punto, fine, stop.

Come detto, un film, qualsiasi film, può essere bello o brutto, fatto bene o fatto male, guardabile o inguardabile… Ma resta sempre un film. Nel caso di Creators – The Past siamo invece al cospetto di qualcosa che francamente non riesco a comprendere come possa essere anche solo annoverabile tra le fattispecie esistenti.

La “trama” (chiamiamola così) la trovate espressa ovunque, quindi non mi prendo la briga di spiegarvela, anche perché credo non possa neppure essere spiegata. Basti dire che si riduce a un delirio casuale, scritto coi piedi e per giunta pieno di buchi, glissati e aporie, avente a che fare con civiltà aliene, complotti, religioni, sorti della razza umana, cryptoarcheologia, senza capo né coda.

Ma il problema non è tanto la trama, chiaramente ricavata da una pappa informe di note teorie rese celebri dalla satira di Maurizio Crozza nel suo Kazzenger. Il problema non è il cameo di Mauro Biglino, nota figura facente parte del grande circo web dei seguaci delle teorie della genetica aliena, nella parte di sé stesso durante un TG. Il problema non è la triste volontà propagandistica del regista, un certo Zaia, la cui megalomania del tutto immotivata renderebbe desiderabile alla regia pure l’omonimo governatore del Veneto. Il problema non è un’attrice caucasica a nome Eleonora Fani (pure lei nota instagrammer o tiktoker a sfondo sciamanico-cabalistico-ufologico) truccata da donna, o dea, o marziana, inspiegabilmente di etnia africana.

Il problema vero è che questo “film che film non è” risulta essere, all’atto della mera fruizione, una sequenza caotica e urtante di audiovisivi montati senza alcun collegamento logico e stilistico, ovvero un montaggio di immagini colorate in movimento che non producono nulla a parte il puro e sterile fastidio.

Ecco dunque tornare la metafora della ricetta.

Questo, attenzione, non è un film d’avanguardia o di sperimentazione, come potrebbero essere le “tele cinematografiche” di artisti come Jeff Keen e simili. Non lo è perché dietro non esiste alcun genio, alcun autore, alcun pensiero. Niente di niente. Solo la volontà di spendere dei soldi per incollare parti che non stanno insieme.

Immaginate una sequenza tratta da Don Matteo. Unitela a un tutorial di qualche software di grafica computerizzata dedicata all’editing video, fatta male, ambientata in un mondo parallelo o in un pianeta sconosciuto. Collegatela a un servizio di Uno Mattina sul carnevale di Ivrea. Procedete con una sequenza di scene del tutto incomprensibili composte da oggetti in movimento, inquadrature inutili, e andate avanti così per tutta la durata della (chiamiamola) pellicola. Ecco, questo è Creators – The Past: un’operazione che a questo punto io spero sia stata dettata dalla volontà di riciclare del denaro sporco.

A questo punto mi chiedo tante cose. Chi ha potuto produrre questa roba? Chi ha potuto ingaggiare nomi come Depardieu e Shatner, infliggendo loro questo tiro mancino a danno della loro carriera? Come è possibile che vengano anche solo immaginati dei riconoscimenti (li ho letti su Wikipedia) a tale obbrobrio?

Sul serio. Al cospetto di questa roba la laurea albanese del Trota suona come un Nobel.

Ora, attorno a questa “cosa” (che appunto non chiamerei mai film) se ne stanno dicendo parecchie, specie ora che, dopo un lungo e a mio avviso meritatissimo oblio, è ricomparsa in un circuito come Amazon Prime, certamente per ricavarne qualcosa in termini di pure risate.

Tra le varie, gira la voce che la produzione sia costata dieci milioni di euro. Un’affermazione che però io ritengo totalmente artefatta, visto che nessun produttore al mondo consegnerebbe nelle mani di un perfetto sconosciuto come il tale Zaia di cui sopra una siffatta cifra per girare un film. Sta di fatto, che all’epoca della sua uscita è stato un flop totale (ma guarda un po’), ed è riuscito a incassare circa duecentimila euro (cifra che a mio avviso continua ad essere un furto).

Ebbene, che vi posso dire? Cosa possiamo imparare da questa vicenda?

Io posso dire solo questo. Il nostro presente non è semplicemente pieno di insidie e caos; esso stesso è il caos, e, come spesso mi capita di dire, la realtà ha superato abbondantemente la fantasia, visto che i veri “creatori” esistono, e sono ahimé tra noi.

Cosa creano? Perdonate la schiettezza, ma creano le “due palle così” che vi farete se avrete il coraggio di visionare questa robaccia dal primo all’ultimo secondo.

Questo blog si candida volontario per ricevere i vostri sfoghi.

Goo Goo Monster Muck Mash

Di Wednesday, serie certamente ben fatta, anche se per i miei gusti un tantino troppo da psicodramma adolescenziale, mi resta più che altro la grande curiosità relativa alla band The Cramps, la cui Goo Goo Muck è stata utilizzata per la nota danza tormentone di Mercoledì.

A latere, mi ricorda ovviamente moltissimo la celebre festa di Halloween della prima stagione di Sabrina. Credo che le somiglianze musicali con Monster Mash siano evidenti.

Comunque, la curiosità di cui sopra mi ha spinto ad approfondire questa band “tra Settanta e (soprattutto) Ottanta (ma non solo)”, di cui mi sto ascoltando questo Psychedelic Jungle (1981). Lo chiamano psychobilly.

Yerba Mate Amanda

Una delle mie ultimissime abitudini in tema di tisane. Si tratta della più celebre bevanda latinoamericana, lo yerba mate, in questo caso prodotta da questo brand Amanda che ho acquistato su Amazon.

L’infusione per ora la implemento con semplici bustine. Per la più complessa preparazione tramite bombilla mi prenderò del tempo.

Un dettaglio romantico. Ho tratto questa nuova passione ricordando alcuni fotogrammi dell’illuminata serie televisiva Mozart in the Jungle.

Il Caso di Velvet Buzzsaw

Sarò breve.

Velvet Buzzsaw è un interessante thriller a sfondo grottesco, satirico e paranormale ambientato nel mondo dell’arte contemporanea, che ebbi modo di visionare qualche tempo fa su Netflix. Il suo iter di ideazione, produzione e presentazione copre un periodo che intercorre circa dall’estate del 2017 ai primi del 2019, e stando alle fonti ufficiali non sembra esistere alcun materiale edito pregresso che ne abbia costituito, per così dire, la base ispirativa.

Per lungo tempo mi sono però chiesto che cosa mi ricordasse questa vicenda che, senza fare spoiler, ruota attorno ai poteri occulti di alcuni misteriosi quadri.

Ebbene, esiste un romanzo del 1985, a firma del nostrano Gianfranco Manfredi, che si intitola Cromantica, la cui storia risulta molto, molto simile a quella di cui sopra. Si parla, nello specifico, della misteriosa comparsa, in un’importante galleria milanese, di alcune tele completamente nere, che oltre ad alludere a particolari storie dal sapore magico e alchemico presentano proprietà incredibili, tra cui quella di resistere al fuoco e agli agenti chimici.

Ora, pare molto difficile che gli autori del film abbiano letto questo libro, che peraltro, a differenza di altri titoli del medesimo autore, non vanta nessuna traduzione in lingua inglese. Eppure la sigla animata degli open credits del film in questione porge alcuni elementi piuttosto sconcertanti: fiamme che ardono dalle cornici di quadri completamente imbrattati di vernice nera.

Attorno a Stranger Things e Affini

Il mio rapporto con la “TV on demand” (Netflix, Prime Video, ma anche la meno conosciuta Pluto TV) nasce, peraltro abbastanza recentemente, attorno al 2018, solo per una ragione che si chiama Stranger Things.

Da tempo sentivo parlare di questa serie, che veramente in tanti — tra cui il mio amico regista Massimo Volta — mi descrivevano come autentico capolavoro, tanto che a un certo punto non ho dovuto accertarmene direttamente. E ho fatto bene.

Devo dire che le aspettative, a dire il vero molto alte, sono state soddisfatte: l’ho trovata a dir poco meravigliosa, lontana anni luce dalle tante e troppe cose banali che da tempo ero abituato a vedere, in quanto mi ricordava in modo assolutamente fedele, per non dire commovente, le atmosfere cinematografiche della mia infanzia e prima adolescenza.

Non starò qui a elencare gli ingredienti di questa produzione. Sono troppi, e credo che solo quelli della mia generazione possano apprezzarli tutti, dal più palese al più sottile.

Delle quattro stagioni fino ad oggi prodotte, quelle che mi sono piaciute di più sono, a parte ovviamente la prima, la seconda e la quarta. Ho trovato la terza leggermente autoreferenziale, ma questo non inficia la qualità generale dell’opera, che resta elevata.

Lo scopo di questo articolo, però, non è tanto parlare di questa serie, quanto rispondere a una domanda che da un po’ è diventata un mio tormentone. Quando è nata la volontà di ripercorrere le atmosfere degli anni Ottanta?

Facciamo due conti…

La prima stagione di Stranger Things è datata 2016. Subito dopo, altri film hanno in qualche modo riprodotto questa volontà di indagare certo cinema di genere degli Eighties, basti pensare al primo capitolo di IT, del 2017, che volutamente (e molto efficacemente) trasporta proprio in questo decennio la prima parte della nota narrazione romanzesca di Stephen King, originariamente ambientata negli anni Cinquanta.

Ma a ben vedere questo revival ha origini spostate più indietro nel tempo.

Forse pochi di voi conoscono un film del 2011, dal titolo Super 8, che vede peraltro l’eloquente presenza di Steven Spielberg alla produzione. Per quanto non sussista ovviamente alcun rapporto di tale storia con quelle citate, ci troviamo di fronte ai medesimi meccanismi e personaggi: una ciurma di ragazzini, tante biciclette, un mistero da risolvere avente a che fare con elementi fantascientifici e complotti governativi, e via discorrendo, lungo un’iconografia che ormai credo sia riconoscibile anche da chi non appartiene alla mia generazione.

Ho citato questa pellicola (peraltro veramente molto bella) per affermare un fatto piuttosto oggettivo, secondo me degno di nota:

Ormai da già una dozzina d’anni è attivo un filone cinematografico, quindi, si suppone, un relativo pubblico, che intensamente ricorda (e mi permetto di aggiungere rimpiange) il “sapore” delle storie che venivano narrate negli anni Ottanta.

Questa considerazione in fondo abbastanza banale suscita in me una serie di ulteriori interrogativi, tra cui uno, ovvero molti in uno. In tutti questi anni, ossia dalla fine dei citati 80s al primo decennio dei Duemila, noi nati circa nella metà dei 70s cosa abbiamo fatto? Come mai la nostra voce si è in qualche misura persa lungo un periodo intermedio di vent’anni? Perché non ci siamo fatti sentire, nel frattempo? Come abbiamo fatto a permettere le cose che sono accadute, e che hanno deteriorato l’Italia, l’Europa e il pianeta?

Se potete capirmi, non so quale sia ovviamente la vostra sensazione, ma la mia è molto chiara: mi sembra di essermi svegliato solo ora.

Ok, sto forse esagerando. Ma una punta di verità c’è anche nei miei interrogativi più (genericamente) “politici”, visto che chiunque appartenga alla mia generazione può vedere molto bene la differenza tra quegli anni e i nostri (e l’adolescenza non c’entra proprio nulla).

Se trent’anni dopo la loro sostanziale conclusione gli anni Ottanta sono tornati a far parlare di sé, lungo un filone che ha già superato esso stesso il decennio, non c’è da fare una profonda riflessione sui prodotti narrativi del nostro presente, magari anche mettendoli in seria discussione?

Io credo di sì, ma lascio a voi la risposta.