New Alien in Town

Il mondo cinematografico statunitense ha prodotto tonnellate di film e serie basate su fumetti. Basti solo citare nomi come Marvel e DC Comics per rendersene conto, vista la produzione ormai simile a una vera e propria catena di montaggio. Ma quanti di questi prodotti sono effettivamente fumettistici? Direi pochi, molto pochi.

Al contrario, l’istanza estetica e narrativa di base in quasi tutti i casi sembra essere quella diametralmente opposta: utilizzare il pretesto e la notorietà di un fumetto di supereroi per parlare di tutt’altro, dagli psicodrammi adolescenziali alle storie politicamente corrette, passando addirittura per tentativi di cinema d’autore, riflessioni amare sulla società contemporanea, quadri metaforici e chi più ne ha più ne metta.

Per quel che mi riguarda, la produzione mainstream in assoluto più fumettistica resta una e solo una: Men in Black. Perché sì, un fumetto è fatto essenzialmente di due ingredienti: da un lato la più o meno totale inconsistenza del soggetto nel mondo reale; dall’altro lato un’idea forte alla base del plot. Nel caso dei Men in Black abbiamo quindi gli alieni — con tutte le leggende assurde e improponibili che ne accompagnano la relativa mitologia — che vengono trattati alla stregua di clandestini criminali, intrufolati illegalmente nella società umana.

Gli alieni costituiscono la materia assurda da trattare con estrema serietà, primo passo nella costruzione efficace di quel sense of wonder — o dovrei dire of weird — che costituisce la ragione principale dell’evasione nel fumetto. Nel contempo, il parallelo coi clandestini fornisce il carburante per creare situazioni paradossali, interessanti, intriganti e appunto intrinsecamente fumettistiche. A dirla con una battuta (che ho letto tanto tempo fa da qualche parte, ma non chiedetemi dove), un uomo delle nevi fa più effetto in una vasca da bagno che sulle vette dell’Himalaya.

Parlando ancora una volta di alieni, non posso fare a meno di citare la serie che sto guardando in questo periodo su Netflix. Si chiama Resident Alien, ed è qualcosa di effettivamente fumettistico, in quanto gioca sul tema dell’invasione aliena da un punto di vista spicciolo, grunge, satirico e nel contempo gestito attraverso una sceneggiatura straordinariamente sapiente.

Il soggetto è sulla carta piuttosto semplice, per non dire già sentito. Un alieno con l’incarico di distruggere la razza umana precipita sulla Terra (ovviamente in una cittadina del New Mexico), ed è costretto a mimetizzarsi tra gli umani per recuperare il suo perduto veivolo e un congegno necessario per la realizzazione del turpe obiettivo. Dopo aver preso le sembianze di un uomo del posto, viene ingaggiato come sostituto dello scomparso medico del paese, la cui vicenda delittuosa produce un caso poliziesco che costituisce il sub-plot della serie stessa. La progressiva conoscenza con l’umanità del luogo andrà a ridefinire gli obiettivi dell’alieno, che ovviamente è anche inseguito da un manipolo di agenti sotto copertura, ben consapevoli dell’esistenza dell’estraneo.

Cosa porge di speciale questa serie? Raccontata così non sembra certo particolarmente originale, ma ciò che conta è lo stile di narrazione e alcuni dettagli piuttosto unici.

Sul piano del puro storytelling abbiamo tutti gli ingredienti che funzionano: storie parallele, investigazione, flashback, siparietti comici legati a precisi personaggi ritratti nei loro rapporti conflittuali, la presenza di un bambino che vede la vera natura dell’alieno, situazioni surreali chiaramente prodotte dallo scontro tra natura aliena e quotidianità, colpi di scena, equivoci, per non parlare dell’evoluzione dei personaggi ritratti nelle loro storie personali catalizzate da questo incontro con lo straniero in città.

Tornando a quanto citavo all’inizio, c’è poi da dire che gli elementi del fumetto ci sono tutti, dalla cultura pop iper-consumistica statunitense al politicamente scorretto; con una trovata specifica che rende tutto ancora più strano, rozzo e bizzarro: il protagonista della storia è effettivamente un totale imbecille, per giunta seriamente intenzionato a compiere un atto violento a danno di tutti gli esseri umani, compresi quelli che amorevolmente lo circondano. Pertanto, la domanda implicita che lo spettatore si pone rimane sempre quella: alla fine della giostra, questo bastardo cambierà idea, oppure continuerà ad essere quello che è, portando a compimento il suo intento?

Insomma, un vero fumetto audiovisivo che mantiene peraltro lo stesso spirito del fumetto cartaceo dal quale è tratto. Ve lo consiglio per le vostre serate con pizza e popcorn.

Alphaville Uno e Due: Metamorfosi della Distopia

Alphaville, o meglio Alphaville: une étrange aventure de Lemmy Caution, è un film francese del 1965, che porge la firma registica di un cineasta non da poco: Jean-Luc Godard. Il pretesto della fantascienza, conformemente alla grandezza della personalità del regista, nasconde in realtà una narrazione lontanissima dal cinema di genere dell’epoca. Parliamo infatti di una pellicola che fonde il cinema noir con un impianto distopico e carico di allusioni filosofiche. Oserei dire una prova generale per quello che sarà, poco meno di vent’anni dopo, il Blade Runner di Ridley Scott.

Ho visto questo film parecchi anni fa. L’esperienza la ricordo molto bene: una sorta di compendio di esistenzialismo francese incuneato in una claustrofobica e certamente fascinosa ambientazione da spy story, con due interpreti altamente iconici: Eddie Constantine e Anna Karina.

Ma la cosa interessante è che quest’opera ha avuto nel 1991 una sorta di strano sequel in forma di documentario cinematografico. Parlo di Allemagne année 90 neuf zéro, dello stesso Godard, una riflessione sulla recente caduta del Muro di Berlino e sui cambiamenti politici e sociali conseguenti alla fine della Guerra Fredda.

Trovo affascinante questo ritorno dello stesso Constantine nella parte di Lemmy Caution. Il reale che diventa cinema e viceversa.

Italia Centrale e Cinema

Arrivati ieri ad Acquapendente. Viaggio piuttosto tranquillo e scorrevole: da Vicenza fino a Orvieto non abbiamo praticamente trovato alcun impedimento, se non qualche minimo rallentamento dovuto a lavori stradali. Partiti alle 7.45, poco prima dell’una eravamo già a pranzo.

A dire il vero la temperatura qui nel viterbese è leggermente più rigida, o così sembra. Ho il naso freddo, e mi è stato riferito che a Vicenza fa più caldo del solito. Ho nel frattempo ricevuto gli auguri da parte del team dei miei datori di lavoro, nonché del gruppo politico territoriale.

L’altroieri, in serata, ci siamo visti il film Diabolik, del fratelli Manetti. Un vero schifo, per quel che mi riguarda. Sono perfettamente d’accordo con gran parte della critica, che ha visto bene di stroncarlo.

Il bilancio del secondo adattamento del fumetto delle Giussani (dopo quello di Mario Bava nel 1968, kitsch ma molto divertito e godereccio) è disastroso. Il Diabolik dei fratelli Manetti non è un errore ma il frutto di una serie di scelte precise, di una visione chiara che tuttavia è incomprensibile. (Wired)

La citazione mi ha indotto a recuperare proprio la versione di fine Sessanta firmata da Mario Bava, che è stato oggettivamente un colossale innovatore e un regista assolutamente ispirato, specie nel cinema di genere all’italiana. Lo si trova in versione integrale su YouTube. Potrei mai smettere di ringraziare la Grande Rete?

Mi sono reso conto che continuo a sostenere la superiorità del (nostro) passato rispetto al (sempre nostro) presente (di Italia ormai colonizzata dal peggio). Ormai è una sorta di tormentone personale, per non dire un vero e proprio filone di interessi. Cerco il passato, che è sempre più difficile da recuperare. Cerco di individuare dei percorsi di sensata fruizione del passato nel presente, cosa tutt’altro che banale.

La cosa può essere estesa al comparto cultura, con qualche considerazione in più. Non solo non abbiamo più intellettuali, ma non abbiamo più le condizioni per una loro collocabilità e sensatezza. Che dire: la finisco qui, altrimenti ci sarebbe troppo da dire.

Narrazioni Infinite e Considerazioni su Arte e Tormentoni

Dopo essermi trangugiato le sette stagioni di Pretty Little Liars — titolo curioso, dato che queste tizie passano un sacco di guai non per le loro bugie, ma per l’abitudine di spifferare tutto a tutti — penso di poter dire qualcosa di definitivo sulle serie basate su quello che ormai possiamo denotare come mito dello stalker onnipotente.

Ne avevo già parlato altrove, ma all’epoca ero veramente all’inizio dell’avventura. (Lo sottolineo, sette stagioni. Sette! Per giunta da venti episodi e passa ciascuna, praticamente un’epopea.)

https://creativephilblog.wordpress.com/2025/03/10/considerazioni-sparse-su-pretty-little-liars/

Posto che la serie, a parte qualche ridondanza, mi è in buona sostanza piaciuta, vuoi per questa attitudine a non prendersi troppo sul serio (cosa opportuna, viste le assurdità chiaramente dilaganti), vuoi per un’oggettiva bravura dell’intero team, credo che comunque qualche considerazione vada snocciolata; parlo soprattutto della struttura generale della narrazione, che, dovendo sostenere come detto una lunghezza piuttosto singolare, ha dovuto fare proprie delle tecniche direttamente tratte dal cosmo autoreferenziale delle telenovelas.

Lo schema a un certo punto diventa il seguente. C’è un personaggio misterioso che sembra vedere e potere tutto. Questo personaggio si inserisce pienamente nel filone — relativamente recente — degli “smartphone al cinema” (all’epoca poco più che telefoni cellulari), in quanto avvezzo a inviare continui messaggi a un gruppo di protagoniste, per vendicarsi di non si sa bene cosa. Questo stesso personaggio, ogni tanto, viene svelato, ma la rivelazione è presunta, parziale, ambigua, immediatamente seguita da un rilancio narrativo che rimescola le carte e induce lo spettatore a cambiare prospettiva e a vedere la cosa come “parte di un disegno più complicato”, che evidentemente mette in discussione tutto. In altri termini, il singolo personaggio del mistero, che evidentemente non potrebbe reggere per sette stagioni, è una sorta di collettivo cangiante che risponde a più mandanti, connessi da fili invisibili sempre messi in discussione. E così via, fino alla trovata finale, oggettivamente originale. (Non faccio logicamente spoiler, ma si tratta di un dettaglio che permette di vedere tutta la storia attraverso una chiave di lettura duplice, che si concentra su alcune inquadrature e scene “non troppo o non del tutto comprensibili”, che risolvono il puzzle con oggettiva coerenza.)

Perché parlo di questa serie? Perché mi interessa così tanto uno psicodramma in fondo adolescenziale fatto di reginette della scuola e segreti del paesino della periferia statunitense? La ragione credo sia esprimibile in questa perifrasi.

Mi rendo invece conto di quanto sia difficile, per gli sceneggiatori, reggere lo schema di storie sempre nuove. Si preferisce dunque creare un mondo e inventarsi non già delle narrazioni autoconclusive, ma delle “situazioni” che permettono di agire con quello che si ha a disposizione. In altre parole, narrazioni che per effetto di continue complicazioni e stratificazioni diventano potenzialmente infinite.

Nel caso di Pretty Little Liars la cosa è stata condotta con maestria. Nel caso del ben più antico Twin Peaks, serie cult di cui ho parlato spesso, i meccanismi sono come sappiamo abbondantemente sfuggiti di mano. Ma la storia è sempre la stessa. Parliamo di narrazioni commerciali, che sfruttano situazioni e fantasie per tenere semplicemente il pubblico incollato allo schermo.

Mi interessa parlarne, evidenziando appunto la differenza tra serialità pura e serialità puramente temporale, perché nel passaggio dall’una all’altra si consuma il conflitto tra mercato e arte, artificio e sostanza, letteratura bassa e alta. Questa conflittualità può essere efficacemente espressa in forma di quesito: Tra l’ispirazione artistica che sfrutta il mercato per diventare fruibile da parte di un vasto pubblico e l’istanza puramente mercantilistica che si fregia di contenuti artistici o intellettuali, cosa prevale?

Lo dico perché c’è stato un tempo in cui i film potevano essere contemporaneamente espressione della cultura popolare e perle della satira di costume, mescolando l’alto e il basso in un tutto che poteva permettersi l’esistenza nel mercato. Negli anni Cinquanta e Sessanta abbiamo in fondo sperimentato questo anche in Italia, no? Prodotti che potevano cioè permettersi di essere storia prima che meccanismo fine a sé stesso.

Lo stalker coi superpoteri ha una natura artistica e intellettuale? Non credo proprio. Funziona, certo. Ma non è l’espediente tramite il quale l’intelletto si porge al pubblico. All’opposto, è l’espediente punto e basta. Piace per passare il tempo, intrattiene. Assume la forma di un tormentone che rilancia sé stesso, sorta di inno alla riconoscibilità.

Frammenti di Memoria tra Dinosauri e Libri

Nel 2014 facevo ancora parte di un team che a Padova portava avanti poliedrici progetti culturali, soprattutto legati al teatro di ricerca (Laboratorio Artaud). Tra questi progetti, un festival estivo che premiava cortometraggi europei, e che in quella edizione consegnò il primo premio a questo Dinosaurios en 3D, di tale Juan Beiro, poetica e malinconica celebrazione delle dimenticate e dismesse sale cinematografiche a Madrid.

A distanza di anni mi torna in mente questo bellissimo pezzo di micro-cinema, cadenzato da una stupenda versione orchestrale di ben noto e iconico brano di Granados: Andaluza, che vi propongo nell’originale versione pianistica.

Mi è venuta in mente questa cosa perché ho pensato — un po’ come l’amico Alessandro Pesavento, avvocato molto impegnato a Vicenza nella difesa del territorio, che a Padova ha studiato e che appunto me lo sottolineava qualche tempo fa durante un nostro incontro istituzionale — a come questa città (come tutte, immagino, ma soprattutto questa, con la sua verve tipicamente universitaria) abbia perso molto a livello culturale. Non parlo nello specifico dei cinema, che sono di fatto scomparsi da tempo, ma delle librerie; le tante, gigantesche librerie che popolavano la città quasi come delle micro-città al suo interno.

Ho passato anni della mia adolescenza e giovinezza a percorrere l’esoterismo della Libreria Internazionale, oggi emporio di detersivi e saponi, oppure la narrativa statunitense di genere (quelle copertine della Sperling & Kupfer!) che dilagava alla Zannoni, in pieno centro, oggi credo tramutata in negozio di abiti o scarpe, per non parlare delle onnipresenti librerie che gli americani chiamano “remainders”, dedite alla ricommercializzazione del fuori catalogo, anche queste oggi convertite in deprimenti succursali del reame dell’usa e getta.

Che dire. Mi andava di dirvelo. C’è qualcuno che sta attentando alla memoria collettiva. Lo fa smantellando senza preoccuparsi di riallestire altrove. Lo fa distruggendo, senza prendersi a cuore la ricostruzione.

Considerazioni Sparse su Pretty Little Liars

Capita abbastanza spesso che io e mia moglie si vada a vedere vecchie serie televisive, magari addirittura per la prima volta. Lo streaming di massa permesso da piattaforme come Netflix e Amazon Prime Video ha permesso questo, creando le condizioni ideali per maratone pazzesche a base di vampiri urbani e intrighi adolescenziali.

Non fa eccezione quella che abbiamo da poco intrapreso con Pretty Little Liars.

In sostanza siamo al cospetto dell’ennesima evoluzione di Twin Peaks (ovviamente con sceneggiatori molto più capaci e raffinati), che ripropongono il tema della scomparsa giovinetta custode dei segreti di una cittadina americana di provincia basandosi su una serie di romanzetti adolescenziali di semisconosciuta autrice, in una salsa che fonde il tema dello stalking a quello dell’investigazione.

Il tormentone della serie, che risale ormai nelle sue prime stagioni (quelle che effettivamente stiamo vedendo oggi) a quasi quindici anni fa, è stato utilizzato anche per dei revival molto recenti, ma in un contesto più satirico e “di genere”, che peraltro mi è abbastanza piaciuto, e ha appunto suggerito la retrospettiva di cui parlo.

Da un punto di vista narrativo siamo al cospetto dell’ennesimo psicodramma adolescenziale torbido a base di schemi usa e getta: c’è un mistero e ci sono delle rivelazioni che alla fine della giostra, invece di risolverlo, finiscono per complicarlo sempre di più, garantendo la continuità della serie e dei conseguenti introiti della produzione.

La cosa interessante è che questa sostanziale presa per i fondelli a grandi linee funziona; ovvero, si mantiene su livelli tollerabili per lo spettatore, che in fondo viene condotto attraverso mondi oscuri sufficientemente intriganti per tollerare l’idea di una storia che necessariamente non verrà mai veramente conclusa.

Insomma, ci piace.

Concludo il Dune di Villeneuve

Il film di ieri sera: Dune – Parte Due, degnissima continuazione del già bellissimo primo episodio visto qualche tempo fa.

Considerazioni su letteratura di genere e cinema. Di fatto, Il Signore degli Anelli è il grande “parallelo” che viene in mente pensando a questo. Con la differenza che se l’ormai storicizzata trasposizione della grande opera di Tolkien proprio non mi è piaciuta, questo Denis Villeneuve ha invece diretto (microbici dettagli a parte) un capolavoro, o come minimo un film troppo diverso e superiore rispetto ai suoi presunti simili per non essere identificato in un netto, sconcertante salto di qualità.

Il film è appunto profondamente letterario, in grado di veicolare non dico in scala uno a uno, ma con estrema fedeltà, la natura iconica e simbolica di questa grande pietra miliare della letteratura di genere. Per una volta non abbiamo la solita azione, i soliti combattimenti cuciti insieme dalla retorica a base di grafica computerizzata e ruoli stereotipati. Dentro questa scatola percettiva ci sono intuizioni, respiri, domande, scenari che rispondono a precise indicazioni ben oltre l’estetica e giungono a intercettare autentiche architetture intellettuali.

Non siamo logicamente ai livelli psichedelici (almeno sulla carta) della “pellicola mancata” di Jodorowsky, ma di certo Villeneuve quei materiali li ha letti e approfonditi più volte.

Lettura Contesto Spaziotempo Percezione

Più che comprare libri dovremmo comprare lo spaziotempo necessario per leggerli.

Ci penso sempre di più. L’ho detto, e lo ripeto: la questione è a monte, e non riguarda solo la prassi della cara vecchia lettura. Pure la contemplazione filmica, o musicale (e la contemplazione in genere), segue la stessa logica. A mancare è il tempo e la sua necessaria qualità minimale. Espressione che può anche estendersi allo spaziotempo. Ossia, manca ormai un quadro circostante atto ad accogliere il gesto.

Il tempo nudo e crudo è minacciato da interruzioni in potenza e in atto. Si tratta, cioè, di un tempo di bassa qualità. Possiamo avere a disposizione l’oggetto del desiderio, quale esso sia. Ma ci sfugge il contesto che ne accoglie la fruizione.

La falsa libertà abbonda; quella vera, che sarebbe bastata e avanzata anche in quantità molto esigue, manca invece completamente. Ne segue una sorta di distrazione basale che confonde ogni percezione. Ossia, abituarsi a considerare reali le risate registrate significa non capire più le battute che fanno ridere sul serio.

Acero Canada

Tra ieri e oggi ho provato — ovvero, riprovato, a distanza comunque di anni — lo sciroppo d’acero. Ha un gusto aromatico che non ricordavo, legnoso, leggermente vanigliato ma con un sentore erbaceo. Molto canadese (non so perché l’ho detto). Ottimo nel caffè lungo. Meno nelle tisane.

Peraltro, c’è una serie Amazon Prime in tema. Very very funny…

C’è Fantasy e Fantasy

brown wooden signage on brown tree trunk

A volerla dire con una perifrasi, si potrebbe intendere la nostra epoca come tripudio di un atteggiamento di iper-semplificazione dicotomica che, a fronte di un’oggettiva esplosione della complessità di ogni ordine, grado e latitudine, propone come soluzione non già, come si dovrebbe, una serie di strumenti per abbassare il grado della complessità stessa, bensì una polarizzazione radicale e assolutamente acritica che si perde il classico bambino coi panni sporchi. In sostanza, oggi come oggi il pensiero unico vuole o tutto nero o tutto bianco.

Ecco dunque le cazzate di ogni giorno… Se sei contro Trump sei a favore della Harris. Se non ti convince la woke-culture sei fascista. Se sei contro un’adesione incondizionata al Partito Democratico sei un sostenitore delle destre populiste. Se metti in discussione il contante sei uno sporco comunista che vuole tassare tutto perché invidioso. E via discorrendo, lungo l’infinita gamma di — appunto — cazzate che contraddistinguono la versione di chi o ha un quoziente intellettivo troppo basso per ragionare su una realtà sfumata e a colori, oppure è più banalmente in malafede, e monetizza il caos attraverso meccanismi di varia natura.

Ho fatto questa premessa per parlare in realtà (anche se solo apparentemente) di tutt’altro: nello specifico, pensate un po’ quanto il volo sembri pindarico, della letteratura fantasy.

La ragione è legata all’aver da poco concluso la seconda stagione di una recente serie televisiva, Gli Anelli del Potere, derivata dal classico romanzo “di culto” Il Signore degli Anelli, a sua volta portato al cinema con la celeberrima trilogia di vent’anni fa, concludendo per quel che mi riguarda una sola cosa: a parte l’originale libresco, che non ho mai letto (fatemi causa), ma che di certo sarà un capolavoro (e vi assicuro che non ho alcun motivo “letterario o intellettuale” per dubitarne), l’intero corpus di opere cinematografiche fino ad oggi derivate dall’universo tolkieniano mi appare come la quintessenza della noia più assoluta.

Già i film di Peter Jackson non sono mai riuscito a digerirli. Lenti, lentissimi, immobili, con paesaggi banali, colori banali (verde acqua e muschio, terra, legno, pietra e cielo azzurro… fine della storia) diluiti in paesaggi senza alcun elemento di originalità. E poi quelle razze, esse stesse di una banalità e (diciamocelo chiaramente) bruttezza assoluta… Per non parlare della storia: una serie di anelli che (1) hanno poteri magici che da soli basterebbero a distruggere una galassia e (2) agiscono sulla mente e sul corpo del possessore solamente se quest’ultimo li tiene appiccicati a sé; ma ha senso tutto questo?

Insomma, veniamo al dunque. Oggi come oggi, riferendosi anche alla sola parola fantasy, nessuno, dico nessuno oserebbe fare un nome diverso da quello di Tolkien, riferendo l’intero genere alle sole sue elucubrazioni sul tema delle mitologie norrene e delle — ribadisco, e nessuno si senta offeso — noiosissime vicende di personaggi ora fastidiosamente bruttarelli, ora fastidiosamente bellocci, ora di una banalità disarmante. Mi viene da dire, se proprio vogliamo parlare di tradizioni, che era molto più originale il Medioevo italico tratteggiato in Brancaleone alle Crociate! Al più il “nostro” fantasy potrebbe spingersi ad altri successi al botteghino, tipo Harry Potter e vari suoi cloni.

A latere: Trovo interessante e istruttivo il fatto che un dark fantasy come il ciclo della Torre Nera di Stephen King non sia ancora stato tradotto in una saga filmica, se non per un (giustamente) dimenticato filmino (del tutto avulso dall’originale storia kinghiana) che di fatto conferma la regola: qui vogliamo solo fantasy a base di orchi e nani…

Tuttavia il fantasy è stato un genere incredibilmente fertile, e battuto da una miriade di autori che nulla avevano a che fare con le scolorite e pallide atmosfere wagneriane aventi a che fare con cavalieri puri di cuore e altre derivate arturiane, che nel dettato di Tolkien — o almeno, del Tolkien volgarizzato in immagini in movimento — assumono una valenza così totalizzante da assumere la caratterizzazione di un monoideismo quasi sconcertante, oltre che, appunto, inefficace e noioso. Cioè: una certa vocazione alla semplificazione e al sistematico oblio ha oggi come oggi letteralmente cancellato, censurato, occultato, fatto fuori e dimenticato autori che nella mia infanzia e adolescenza riempivano letteralmente i cataloghi di case editrici del calibro di Fanucci e Nord, per non parlare della stessa Mondadori.

L’edizione tascabile del 1991

Un esempio che mi piace citare è questo interessante romanzetto (di cui trovate alcune dettagliate informazioni in questo link), che si intitola Il Viaggio di Hiero, e che mi capitò tra le mani quando appunto fu ripubblicato da Fanucci — che lo aveva già fatto uscire nel 1976 — in una conturbante collana di fiammanti tascabili, nell’ormai lontanissimo 1991 (ero poco più che quindicenne). L’autore è un certo Sterling E. Lanier, nome ovviamente quasi sconosciuto, esattamente come restano praticamente sconosciuti tantissimi altri autori, come ovvio quasi tutti statunitensi, che però ebbero modo di giungere fino a noi in Italia durante tutti gli anni Settanta e Ottanta, fino appunto a quasi un decennio dopo.

Alcuni di loro — cioè degli appartenenti a questa sorta di grande cenacolo yankee della letteratura di genere fiorita nel secondo dopoguerra — sono ricordati ancora oggi, come, che so, un Philip Josè Farmer o un Fritz Leiber, ma tantissimi altri sono annoverabili nel grande oceano delle meteore. Eppure l’interezza della loro opera ha costituito l’ossatura di un fantasy veramente originale, diverso, colorato, esuberante e intellettualmente vivace.

Tornando al romanzo di cui sopra, non starò logicamente a raccontarvi la trama, anche perché in tutta sincerità la ricordo solo per sommi capi. Basti dire però che il viaggio del titolo si inoltrava in uno scenario da “dopo catastrofe”, dove tra animali mutati e senzienti, telepatie, foreste pluviali e incontri stranianti, il protagonista giungeva a recuperare un oggetto risalente a quella che per lui era la preistoria: sto parlando di un computer!

Insomma, con questo esempio del tutto banale mi premeva farvi capire come questi ultimi trent’anni siano sostanzialmente passati a dimenticare tutto, e a semplificare fino all’inverosimile quel poco che rimaneva: il gusto, la letteratura, il cinema, la politica, il pensiero, le idee… Tutto… Anche l’immaginario ne risulta sconvolto, ovvero semplificato in dicotomie, oltre che disarmanti, anche false (basti pensare a termini ormai svuotati di ogni senso sia filosofico che storico, come Destra e Sinistra, ridotti a slogan da analfabeti funzionali).